LUCI

l'infinito

“Se potessi esprimerlo con le parole, non ci sarebbe nessuna ragione per dipingerlo”

Queste erano le mie uniche parole quando qualche emerito critico s’ostinava con la più stupida richiesta che si possa fare ad un pittore: “Mi dica Maestro, mi racconti l’evoluzione, la trama narrativa del suo quadro…” Evoluzione, trama narrativa, ispirazione…con queste stupide parole era sicuro di poter adulare il “Maestro” e di rapire per primo qualche segreto per poi sbatterlo su qualche suo articolo. Povero illuso, il Maestro non si è mai ossequiato di fronte agli “Alti riconoscimenti”, né ha mai piegato la sua valenza pittorica ad essi. Nessuno può essere così banalmente idiota nel richiedere l’uso delle parole per la comprensione di un quadro! Il quadro e le voci altrui? Il quadro e la sua inconfondibile voce! E oggi, Jo, ho tolto dalla galleria della Vita, un quadro che ora più di ogni altro ci appartiene. Ma lo scoprirai più avanti…non aver fretta, perché lo riconoscerai alla fine di questo mio racconto.

Oggi sembra una domenica qualunque…

la domenica

C’è chi passeggia tranquillamente sulla spiaggia, chi si diverte a riempire il tempo con qualche nuova avventura amorosa, ma questa domenica qualunque, cara Jo, si sta trasformando nella mia “solitaria domenica”, dove il senso di una prospettiva della vita volta verso la fine mi conduce a dirottare il mio sguardo, le mie parole, nell’unico quadro che non ho ancora completato: il quadro della mia stessa vita.

Questo quadro ho bisogno ancora di viverlo, e sono loro che implorano ancora questo.

Loro…i miei quadri!

Ogni quadro è rimasto dentro al suo vagone speciale, mentre il treno della vita mi concede ancora del tempo per raccontare, senza pudore, l’attesa della fine. Ti stupisci? Ti sta cogliendo un fremito di stupore? Non preoccuparti, capita anche a chi è sempre stato poco convenevole con le parole, a chi ha sempre rifiutato qualsiasi tipo di racconto sulla propria vita, lasciando solo parlare i suoi quadri. Ti ricordi? Qualche benpensante supponeva che questa mia ritrosia fosse dovuta ad un carattere scontroso, difficile da commisurare con i rapporti umani. Forse, mia cara, questo tuo solitario vecchio, sta vivendo la paura che i suoi quadri possano rimanere senza la loro inconfondibile voce. E allora, vecchio e ostinato padre, tento di dissuaderli dal nascondersi, dall’essere intimoriti da qualche dubbio, forse anche mio, e rovisto parole dal fertile terreno della mia memoria (ai pittori è concesso ancora questo dono), per conferire ad ogni quadro una voce speciale, una voce senza fine, una voce al di là della mia morte.

Ho bisogno di parole, cara Jo,

di parole…

La linea di confine di questo mio racconto verrà data dall’intima luce che c’è, che esiste a cape Cod.

Quella luce che amo, luce che tra un po’ non mi donerà più le sue inestimabili grazie…

Tu ascoltami, non lasciarmi solo…

il faro

Loro, i quadri, vennero al mondo con il mio stesso patrimonio genetico perché, come scrissi a Charles, “Il mio obiettivo è sempre stato quello di usare la natura per fissare sulla tela le mie reazioni più intime all’oggetto, così come esso appare nel momento in cui lo amo di più, quando i fatti corrispondono ai miei interessi e alle immagini che mi sono creato in precedenza.” La pittura diventava una meravigliosa sintesi della mia esperienza interiore, quella più complessa e vera.

Mi chiedi se i miei quadri siano un prolungamento della mia vita? Lascio a te, dopo il mio racconto, la risposta…

Provo a sforzarmi, tentando di riportare questa mia ostinata memoria nel punto esatto dove tutto ebbe inizio, il momento preciso dove l’arte iniziò quel moto perpetuo attorno alla mia vita.

Ma vano diventa questo tentativo, impossibile.

Con il passar degli anni, anche tu sei riuscita a scoprire quando trovavo il tema su cui concentravo la mia assoluta attenzione. La forza meravigliosa della pittura sentivo che si realizzava con lo studio della luce. Osservavo il cielo con meraviglia, amavo il sole calante dei pomeriggi estivi che proiettava ombre e luci in forme nette e lunghe. Mai il mio sguardo si disincantava di fronte al cielo, perché mai ho tradito lo sguardo magico della meraviglia, lo sguardo magico della mia infanzia. Complice la mia fertile solitudine, durante gli anni affrescati dal gioco e dal sorriso, mi divertivo a trasformare le nuvole in cavalli galoppanti, il cielo in una lussureggiante prateria, e la luce diventava una misteriosa chiave per entrare in territori finora inesplorati.

Conquistatore della luce, all’arrembaggio di nuove terre.

Così nacqui…

Così rimasi…

Anche se con il tempo, il passar degl’anni, iniziai a studiare meticolosamente, quasi al pari di uno scienziato, le traiettorie dell’illuminazione artificiale, e mi interessai sempre di più a uomini e donne immersi nell’ombra e nella luce. E nell’ombra e nella luce, ancora oggi, sebbene vecchio, ritorno in quel gioco solitario della mia infanzia, quando scoprivo, mentre s’adagiava sul volto stanco di mio padre, lo scorrere implacabile del tempo, e in quella luce comprendevo, già allora, la cronaca faticosa della sua giornata. Ogni volta che si rinnovava la scoperta sui volti delle persone amate, sentivo che il tempo si sospendeva dentro ad un inquieto senso di fragilità per ciò che sarei divenuto, per ciò che sarebbe rimasto di me.

vecchi

Da allora la luce diventò la mia inseparabile compagna. Mi chiedo se, già in quei momenti, volessi individuare nel passaggio della luce, il suo istante immutabile, fissare l’istante eterno, quell’attimo della luce così apparentemente contradditorio: l’istante eterno e il suo contrario. Quell’istante che specchiava se stesso nella sua fugacità, perché in realtà viviamo mentre una parte di noi se ne va, per sempre.

Arrivato all’età fertile delle domande, non mi interessai a dare qualche spiegazione al mio processo creativo. Un giorno, alla richiesta di un benemerito critico su cosa intendessi esprimere con l’arte, pronunciai queste parole: “La vera arte è la rappresentazione di me stesso!” Lo dissi di getto, senza pensarci su, forse senza nessi logici. Me stesso e la solitudine? Quel forte senso di fragilità, condizione della mia vita? Io, Hopper, ho sempre voluto fare me stesso! E a chi mi chiedeva se attraverso  la pittura intendessi comunicare con il pubblico, rispondevo che dipingevo solo per me stesso. Vi sono due fasi distinte nella vita di un pittore: la prima fase è la creazione di ogni particolare del quadro e in questa fase non mi sono mai interessato a comprendere perché dipingo, né ho mai sublimato qualche mio desiderio, o la vana paura della morte, con la pittura. Ho dipinto e basta, senza tanti perché, senza nessun dubbio. Nella seconda fase, quando il quadro è giunto a compimento, vuoi che il quadro comunichi con il pubblico. Il quadro finalmente ha una sua inconfondibile voce!

E solo oggi, ormai vecchio, senza avermi mai posto alcuna domanda sul perché ho concesso alla pittura il patrimonio esclusivo della mia esistenza, questa luce è pronta a svelarmi il motivo della mia arte: dipingevo per scoprire il canto malinconico della vita di ogni giorno, vita ripresa nell’intima quotidianità, e man mano che riprendevo ogni implacabile proiezione della luce su ogni minimo dettaglio visivo, la regia oculata dell’occhio diventava sempre più prodigiosa nel rapire la malinconia di ogni individuo, la sua fragilità, lo scorrere del tempo verso l’annullamento della vita, perché anche all’interno di una stanza dismessa l’arte pittorica ci svela qualche traccia atta a raccontare l’universale fragilità di questa nostra esistenza.

Qualcuno ha definito i miei quadri “icone senza tempo”, forse perché il tempo si annulla nella malinconia che ognuno di noi porta già con la sua nascita, quella malinconia che viveva dentro ai miei colori, alle linee, alla luce che catturavo con orgoglio. Comunque non ho mai voluto essere l’unico arbitro dei miei quadri, non ho mai preteso di indirizzare lo sguardo dello spettatore verso qualche fine implicito nella mia pittura. Non esiste un’unica via d’accesso per la comprensione di un quadro: ognuno scelga la propria. E non volli mai nei miei dipinti creare una sorta di complicità con il luogo della mia narrazione visiva. Quel luogo, già intimo di per sé, mi avrebbe fatto scoprire le sue geometrie, i suoi rettangoli di luce che investono le pareti, le sue zone d’ombra e le linee precise di corpi dal profilo solitario. La trama di un possibile racconto la creava la luce, spettava poi ad ogni spettatore tramare nuove storie.

La vera invenzione nasce dalla forza  dell’immaginazione.

Sai, solo oggi sono giunto alla conclusione che i miei quadri portano con sé un vago senso di morte. Mentre dipingevo sentivo che stavo distruggendo tutte le mie percezioni, distrutte attraverso la loro trasformazione sulla tela. Distruzione necessaria, inevitabile, perché i quadri potessero avere la loro inconfondibile voce. E vivevo con loro l’ intimità di un padre con i figli, l’intimità che nasce anche dalla forza dell’immaginazione che ogni padre possiede quando immagina il futuro del proprio figlio. Volevo che ognuno di loro venisse accolto con la sua inconfondibile voce, il suo temperamento, il desiderio di vivere senza subire pregiudizi. Ma questo, tu lo sai, arrivò tardi, poiché fino al 1924 i miei quadri vissero in solitudine, in completa solitudine. Gli sguardi dei miei quadri e di un possibile acquirente, stranamente, non si incontravano. Troppo diversi?

Ti ricordi, quando  qualcuno li definiva “Metafore del silenzio”? Ma il silenzio parla, racconta senza nessun pudore la più profonda verità.

C’è un unico motivo che permane in tutta la nostra vita, segno distintivo d’ogni esistenza. Solo oggi oso definire questo segno distintivo “la voce indistruttibile di ogni uomo e di ogni donna”.

Questa voce è il mistero della nostra solitudine.

penso

Non preoccuparti, non sto farneticando, possiedo ancora non solo l’arte doviziosa della pittura, ma anche l’arte del ragionamento, della profonda comprensione. Dico profonda perché a noi vecchi, mentre i movimenti diventano sempre più languidi, la comprensione della vita, o ancor meglio la vera intuizione, si trasforma in un’intuizione profonda, terribilmente vera, senza maschere e tradimenti. Tu la chiameresti un’intuizione nobile, che spetta di diritto a chi da sempre ha contemplato, con la propria arte, la vita.

Questa voce, il mistero della nostra solitudine, ci appartiene da sempre: nasciamo nel ritmo della nostra solitudine…morirò in quella sorte finale riservata ad ogni individuo. Ancora in un’assoluta solitudine, ma questa volta non più feconda, non più fertile. Senza più luce, senza poter cogliere il movimento rapido della luce su un volto, il suo tremolio sulle pareti di una stanza, senza più afferrare da quella luce il chiacchierio delle ore, l’attesa della nuova stagione.

Ma ora entra Jo, posati sulla mia tela. Questa tela possiede il potere magico di aprire il sipario della vita…

Lo so, sei stanca di acrobazie, di ulteriori imprevisti…

Puoi salire su solo lentamente, perché la vecchiaia non ci concede molta grazia nei movimenti. Non preoccuparti, ti sto tendendo la mano…abbiamo dipinto la nostra vita assieme, non possiamo perderci  ora. Annotavi sul nostro diario tutti i particolari dei miei dipinti e in quel diario scrivevamo come stavano crescendo, quali altre conquiste avremmo fatto assieme.

Poi, assieme a loro, siamo sempre andati dove c’era il sole.

Anche a loro, i quadri, ho sempre fatto rivolgere lo sguardo verso il sole. Ma quando vivevamo un’inquieta malinconia, i personaggi dei miei, dei nostri quadri, li rappresentavo mentre cercavano il sole.

Lo cercavano, Jo, lo cercavano…

In attesa…

Su, sali…non c’è la luce naturale del sole, ma si stanno accendendo le luci di un antico sipario.

Siamo due commedianti nell’atto finale, nell’ultimo saluto al nostro pubblico.

Sssh…non versare nessuna lacrima…la vita è una grande commedia umana e l’arte ha il compito di rappresentarla.

Ti ricordi durante il nostro primo incontro, la nostra amata poesia di Verlaine? Io iniziai dedicandoti le prime parole: ” Un vasto e tenero acquietamento sembra discendere dal firmamento” e, senza esitare un attimo, tu continuasti: “Che l’astro illumina. E’ l’ora squisita”.

Era l’ora del nostro primo incontro. L’ora nella quale i nostri sguardi svelavano l’incanto dell’innamoramento. In quel momento sentivo che stavo trovando la luce dell’attimo eterno dentro al tuo dolcissimo sguardo.

Oh Jo! Ti sei fatta tradire dall’emozione dei ricordi? Non piangere, il pubblico ci sta attendendo, ma dobbiamo sforzarci, a tutti i costi, perché nessuno dei presenti possa comprendere che il nostro è l’ultimo saluto, in questo atto finale.

Si sta spegnendo la luce, qui a Cape Cod.

Una luce flebile mi lascia il suo ultimo canto…Non ci sono più parole per questo mio racconto.

E’ ora di entrare in questo quadro dal titolo così chiaro e preciso: “I commedianti”.

Ancora per qualche attimo, questa esile luce ti concede il dono di carpire l’ultimo segreto…

Osserva il pubblico in sala, Jo…

Sono presenti tutti i quadri.

Ti chiedi ancora se i miei quadri siano il prolungamento di me stesso?

“L’opera è l’uomo. Non nasce mai dal nulla”

Non piangere, Jo…lo spettacolo andrà avanti con le loro Voci…

Per sempre

 

 

Hopper e la verità delle parole

autoritratto

Questo grande artista ha concesso a noi, semplici viandanti, di poter cogliere le profonde verità delle sue parole.

Ognuno scelga la propria

In una lettera a Charles Sawyer, direttore della Addison Gallery American Art, Hopper scrive: “Per me, figura, colore e forma, sono solo mezzi per raggiungere il fine, sono gli attrezzi con i quali lavoro, e non mi interessano in quanto tali. Mi sento attratto soprattutto dal vasto campo dell’esperienza e delle sensazioni. Il mio obiettivo nella pittura è sempre usare  la natura come mezzo per provare a fissare sulla tela le mie reazioni più intime all’oggetto, così come esso appare nel momento in cui lo amo di più. Perché poi io scelga determinati oggetti piuttosto che altri, non lo so neanche io con precisione, ma credo che sia perché rappresentano il modo migliore per arrivare a una sintesi della mia esperienza interiore.”

“L’ arte che racchiude una verità fondamentale è sempre moderna. Per questo Giotto è moderno come Cezanne”

“Da bambino sentivo che la luce della parete alta di una casa era diversa da quella della parete più bassa. Quella in alto ha più gioia!”

“L’opera è l’uomo. Ogni stato d’animo, per quanto banale, merita un’interpretazione”

Hopper mai dimentica nella sua arte la frase di Goethe “L’inizio e la fine di ogni attività artistica è la riproduzione del mondo attorno a me attraverso il mondo in me”

Di Goethe, ama particolarmente la poesia “La quiete”

In tutte le cime è quiete

in tutte le valli non un suono.

Tacciono gli uccelli del bosco

Aspetta presto riposerai

Anche tu

Ma la poesia più amata da Hopper è la poesia rivelatrice di quel grande amore che si svelò già al primo incontro con Josephine: la poesia di Verlaine “l’ora squisita”

Un vasto e tenero acquietamento sembra discendere dal firmamento

Che l’astro illumina

E’ l’ora squisita.

Anche noi viandanti di questo inestimabile viaggio rappresentato dalla vita, riusciamo a vivere “L’ora squisita”, quell’attimo eterno attraverso i suoi quadri.

Perché “l’opera è l’uomo”

Un uomo vero, libero, che pone nel suo viaggio quella frase battagliera, tratta dal diario di Delacroix, che Hopper mise come fondamento nella sua lotta contro false teorie, deliranti opportunismi di mercato:

“Gli uomini della nostra professione negano ai fabbricanti di teorie il diritto di muoversi impunemente nel nostro campo e a nostre spese”

 

Vi chiedo di perdonarmi se, dopo essermi seriamente documentata, ho voluto aprire il mio sipario per vivere quel palcoscenico che tra un po’ non mi concederà più la presenza di volti amati profondamente. E così, per continuare ad osservare il cielo con meraviglia, ad amare la luce che si adagia sui loro volti stanchi, consapevoli dello scorrere implacabile del tempo,

per non tradire lo sguardo malinconico della vecchiaia e poter carpirne il dolce segreto, 

ho preso per mano le mie parole e le ho condotte nell’ultimo lascito di Hopper…

i commedianti

Quel quadro “I commedianti”, con il quale Hopper, giunto negli ultimi anni della sua vita, dipinge se stesso e l’amata moglie nelle vesti di due attori che alla fine dell’ultimo atto si congedano per sempre dal loro pubblico.

Finalmente, nel gioco della finzione del mio scritto, nella trama tessuta dalla fantasia del racconto, so che vivrò per sempre quel dolce segreto,

anche quando arriverà la “metafora del silenzio”.

Questo mio scritto è dedicato allo sguardo profondo e vero della vecchiaia

A presto

Adriana Pitacco

quadri postati: camere vicino al mare(1951) – Domenica(1926)- Lighthouse Hill(1927)-Hotel accanto alla ferrovia(1952)- Sole mattutino(1952)- Due commedianti(1965)- Autoritratto(1903-1906)

Brano musicale: dal secondo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov, il secondo movimento, suonato da lui stesso

 

 

 

 

Gioia!

bty

Non vi è più nessun mare in tempesta…

Raminghi, i colori notturni lasciano il passo a macchie di luce pronte a svelare il giorno.

Adesco, con il sole nascente, il mio porto migliore,

il mio porto più sicuro.

Perché la vita è immensa…

 

Approdo in un magico giardino.

il giardino fiorito

Passi leggeri catturano la mia vista, quei tuoi passi che si fondono con il ritmo colorato di una rinnovata fioritura. E, nella volta celeste del tuo sorriso, riconosco il tuo volto, la tua voce, ancora così malinconica e  preziosa nel custodire la vera lezione di felicità. Da sempre desideri rimanere nell’ombra e affidare le sorti dei tuoi dipinti ai tuoi amici, alle persone che ami. Questa volta tocca a me scoprire la voce del tuo ultimo ritratto, della tua ultima opera che tu ami definire “volutamente incompiuta”, perché l’ultimo tocco spetta a chi riesce a cogliere il motivo della sua nascita, la musica della sua esistenza.

pianoforte

Qualche dubbio mi assale…forse dovrei rinunciare all’impresa perché questo ritratto mi appartiene.

Ora dovrò specchiarmi sui tuoi colori, sulle tue linee, dentro al lavorio laborioso delle tue mani, e scoprire dentro al tuo ritratto, al mio volto, la tua lezione di felicità.  Anche se questa volta non potrò barattare il dolore o assopite delusioni con l’arte della scrittura.

Decido di iniziare dalle uniche tracce che mi hai lasciato: il titolo “Gioia!” e una piccola finestra, a destra del quadro, che hai voluto rappresentare con queste parole: “La vedi quella piccola finestra? Ti custodisce sapientemente.”

Non so per quale magia, per quale alchimia del destino, ma lo sguardo profondo delle tue mani ha saputo dipingere quelle parole che hanno accompagnato la mia gioventù: “Ricordati  che nella vita l’interno e l’esterno si fondono in un’unica e dolcissima sensazione, sta a te saperla cogliere”

Come fai a conoscerle?

L’invisibile orchestra dei ricordi ora suona la melodia di un volto che ho amato: il dolcissimo volto di mia nonna.

Finalmente comprendo…

Nei tuoi ritratti cogli l’anima di ogni donna, di ogni uomo, in quelle tracce della memoria che scolpiscono il loro presente. Ma nessun segreto ti appartiene senza prima averlo vissuto nella trama del tuo quadro.

E mentre i tuoi colori si trasformano in delicatissime finestre aperte al mondo, all’attimo della gioia, si sciolgono i nostri dubbi, le nostre paure, i nostri dolori.

“Perché vi è sempre un punto di contatto tra la realtà filtrata attraverso una finestra e l’armonia della nostra anima musicale.”

Così parlasti quando ti rinchiusero dentro alle antiche mura, dentro a terre alimentate dal sangue delirante dei pregiudizi, dentro all’odio ostile verso tutto ciò che era diverso.

In esilio, ai confini del mondo.

QUADRO MARA DONNE

 

Pronti a dilapidare la forza delle tue idee, la forza del tuo coraggio.

Ma non dimenticasti mai di aprire la tua piccola finestra.

Mai.

Ti ritrovai dopo anni, nella luce di settembre, pronta a raffigurare un nuovo giorno ancora scortato dall’estate.

Lacrime silenziose scendevano come perle sul tuo volto, usurpato dal dolore ma mai smarrito, poi un minuscolo battito d’ali, e in quel capriccio del volo iniziò il levar delle tue parole: “La vedi?  Quell’inquieta farfalla si sta tuffando nel calice e s’infiora di vita disponendo il progredir dei suoi giorni. Vive la cadenza dei suoi giorni verso la morte, osservando la vita. Non perde nulla del suo viaggio, nulla! Si diverte a mostrarci la calligrafia della sua morte, ma per ogni volo vive ogni giorno come una vera e unica opera d’arte. Sarà così anche per me, lo so!”

le ballerine

E oggi, di nuovo,  si riempie d’azzurro il confine del tuo occhio

Si librano in volo nuovi volti

i tuoi nuovi ritratti di gioia

nel giardino dell’anima

rosa rugiada

 

con le parole del grande Cesare Pavese

 

Girerò per le strade finchè non sarò stanca morta

Saprò vivere sola e fissare negli occhi ogni volto che passa e restare la stessa

Questo fresco che sale a cercarmi le vene 

è un risveglio che mai nel mattino ho provato

soltanto mi sento più forte

che il mio corpo accompagna il mattino

 

Son lontani i mattini che avevo vent’anni

e domani ventuno: domani uscirò per la strada,

ma ricordo ogni sasso e le strisce di cielo.

Da domani la gente riprende a vedermi e sarò ritta in piedi

e potrò soffermarmi a specchiarmi in vetrine.

I mattini di un tempo, ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo di essere io che passavo, una donna padrona di se stessa.

La magra bambina che fui si è svegliata da un pianto durato per anni

Ora è come quel pianto non fosse mai esistito

E desidero solo colori.

I colori non piangono, sono come un risveglio: domani i colori torneranno.

Ciascuna uscirà per la strada, ogni corpo un colore, perfino i bambini.

Questo  corpo vestito di un rosso leggero

dopo tanto pallore riavrà la sua vita

Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi

e saprò d’esser io: gettando un’occhiata mi vedrò tra la gente

Ogni nuovo mattino uscirò per la strada cercando i colori

 

L’ARTE E LA VITA: finestre aperte al mondo

Henri Matisse

bty

“L’esterno e l’interno si fondono nella mia sensazione”.

Sono le parole pronunciate da Matisse che svelano la trama del quadro “Finestra a Coilloure”

bty

Attraverso il suo sguardo, Matisse ci racconta quella narrazione modulata a due voci, quel canto e controcanto, tra la sua voce più intima e la Vita. Un’arte, quindi, che nella sua profonda intimità, coglie con i suoi quadri quella finestra aperta al mondo, preludio della gioia di vivere. Nel suo saggio “Note di un pittore”, Matisse scrive di voler esprimere con la sua arte il sentimento in tutte le sue forme. Indimenticabili rimangono le sue inestimabili parole: “Solo la figura mi permette di esprimere al meglio il sentimento in qualche modo meraviglioso che ho per la Vita. La pittura mi ha mostrato il Paradiso!”

Anche verso la fine della sua vita, sebbene debilitato da una grave malattia, questo grande Uomo, non rinuncia a scoprire quotidianamente nei volti amati la vera essenza dell’arte e della vita. Apre quindi la sua magica finestra e trasforma in una dolcissima melodia due realtà apparentemente dissimili: l’interno e l’esterno.

Poco prima di morire, Matisse fissa un carboncino su una lunga canna di bambù e traccia sul soffitto della sua camera, i volti sorridenti dei suoi amati nipotini.

bty

E nell’infinito attimo del presente, nel sorriso di chi amiamo, nella forza delle nostre idee

per sempre

vivremo l’interno e l’esterno in una gioia eterna!

 

Dedicato a Mara, al destino di un incontro

per sempre

Adriana

 

quadri postati:

di Mara – Gioia! – ritratto del mio esilio-Opera

Di Matisse – Autoritratto 1918- Finestra a Coilloure 1905

brano musicale: Renele Fleming- canta “Vocalise” op 34 di Rachmaninov

Un angolo del mio magico giardino è rappresentato dall’ulivo in giallo e da una delle mie dolcissime rose vestita di rugiada.

a presto

Adriana Pitacco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Principe al buio

toto 5

Troneggiava la luce del sole di mezzogiorno sulle pareti tappezzate dai titoli nobiliari, stemmi araldici che rigogliosi trasformavano la stanza in un insolito giardino di alberi genealogici. Su tutti balzava all’occhio una data, sapientemente decorata in oro: 18 luglio 1945. Date, numeri magici, che riconoscevano con sentenza del tribunale di Napoli il diritto a “sua altezza” di fregiarsi delle più altisonanti discendenze principesche.

“Vecchio, ma pur sempre un principe, doppiamente principe: Principe De Curtis e Principe del Teatro”, ripeté l’esile corpo racchiuso in un piccolo trono, una smilza poltrona. E con sagace pazienza quel minuscolo corpo addestrò abilmente le sue mani ad occuparsi del momento della vestizione: momento sacro, magico, che da sempre conferiva al principe, a “sua altezza”, quel tocco di assoluta eleganza. Giacca, pantaloni scuri, sul capo una piccola bombetta e supremo diventava il fasto della recitazione!

toto 2

 

Lo spettacolo tra un po’ sarebbe iniziato e oggi il principe avrebbe di nuovo trionfato! Anche se due occhiali neri ne usurpavano il volto, sbeffeggiandolo, depredandolo delle sue grazie mimiche, del diritto inviolabile di osservare la scena e di rendere lo sguardo sempre più bruciante di applausi, eterna maschera teatrale. Certo che quel volto, quel minuscolo corpo, con il passar del tempo era stato costretto a far dimorare lo sguardo su invisibili ali spuntate miracolosamente quando, all’occhio sinistro, si staccò quell’involucro magico chiamato retina. Quell’occhio non raccontò più, non parlò più, ma al suo posto parlarono quelle invisibili ali di farfalla che assieme all’occhio destro, suo devoto compagno di viaggio, erano in grado di far correre, saltare, rimbalzare, precipitare, fuggire, quell’esile corpo acrobata.

toto 1

 

Ma un giorno maledetto, gli occhi, gli amati figli, che mai prima avevano voluto farsi commiserare per essere nati scarsi di virtù, sprofondarono in un infinito abisso. Da quel momento, durante il lento procedere della giornata, sua altezza era flagellato da un’unica domanda: “Com’è possibile che un principe diventi cieco?” Solennemente le mani si avvicinavano al volto per asciugare una lacrima, una sola lacrima, che spuntava solitaria prima del sopraggiunger dell’orgoglio, giunto a ricordare a sé stesso l’elenco interminabile di titoli nobiliari che dimostravano l’alta discendenza di sua altezza, ma anche il coraggio di un principe che non si arrendeva mai. La sua era stata una vera e propria battaglia araldica. Sì, perché quando ebbe il passaggio alla maturità, quel padre, così tanto ostinato a non trasmettere la sua discendenza nobiliare a quel figlio nato da una proletaria, riconobbe il diritto ad Antonio Vincenzo Stefano Clemente di entrare nella dinastia dei nobili De Curtis. Finalmente un padre! Per di più un vero marchese. Ma la vita gli riservò anche un altro ossequioso riconoscimento che spetta solo a chi nasce nel regno degli eletti, di coloro che vengono forgiati dalle mani degli Dei, di coloro che vengono mandati al mondo con queste parole:  “Scenderai sulla terra per far vivere uomini e donne delle tue virtù! Solo tu saprai donare agli uomini le vere risate di gioia!” Diventato uomo e vero dispensatore di risate di gioia, sua altezza venne anche adottato dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, felice di trasmettere a quel “miracolo divino” tutti i suoi titoli nobiliari.

Poi con i ricordi sentì di possedere ancora quelle invisibili ali: era giunto il momento di tornare a teatro. Mancava solo il mazzolino di fiori, il delicatissimo omaggio floreale che, all’insaputa di occhi indiscreti, avrebbe fatto trovare, come s’addice ad un vero principe galante, alla nuova attrice scritturata da poco per il felice esordio. Preparare il mazzolino era compito di Nina, la governante, ma Nina oggi s’ostinava a non rispondere ai suoi perentori richiami. Solo qualche secco rumore che proveniva da uno spazio non ben definito…

e il principe non trattenne più nessuna parola.

“Malafemmina…non vuoi venire? Vuoi lasciarmi solo, o te la sei presa perché non ti ho mai raccontato come il principe, il grande Totò, sia diventato cieco? Vuoi conoscere questo mio segreto? E allora ti racconto del Principe de Curtis, Principe della comicità. L’illustrissimo principe si mette a nudo….Ssssh…va in scena il primo Atto, si recita a braccio: “La farsa del Principe al buio”.

toto 3

Ricorda mia cara, un tocco magico con il pollice e il medio e il principe possedeva la magia di far tramontare le luci, mentre sperdute lucciole danzavano dentro ai grandi lampadari del teatro. E allora faceva capolino il mio occhio destro. Oh sì! come si divertiva ancora a scorgere le luci, a vedere come si cambiavano d’abito, per poi svanire nel riposo serale. L’ho sempre chiamato il mio “occhio bambino”, perché come ogni bambino possedeva l’arte di rapire i sogni del pubblico. Osservando abilmente le loro espressioni, i loro volti, ne carpiva i segreti. Tante volte, l’occhio bambino, sconsolato, tornava dal principe: “Ehi! Nel pubblico ci sono persone tristi…le ho viste, le ho scoperte….Perché non ridono più?”

Ma riuscivo sempre, dico sempre, a rassicurarlo con queste parole: “Non preoccuparti…tu rimani con me…vedrai che il principe riuscirà a creare per loro vere risate di gioia!” E arrivavano le vere risate di gioia, spuntavano felici di esistere, dentro ai cuori, ai volti di chi finalmente rideva. E come riuscissi è un segreto che avevo fatto scoprire solo all’occhio bambino, poiché assieme vivevamo l’opera della vita.

In quest’opera della vita i geniali fermenti, i veri principi, rimangono per sempre. Io…io i personaggi li ho sempre rivestiti della mia immagine. Sono loro che aspettano solo che il principe li vesta di vera onorificenza. Mi chiedi quali siano le vere onorificenze? Su…non dirmi che non lo sai…L’applauso del pubblico! Da sempre, di quel pubblico che considera Totò la più straordinaria maschera comica del vecchio e del nuovo continente, il vero “Principe dei comici”. Ti par poco? Questa mia maschera descrive la realtà, ma riesce anche a capovolgerla. E per dirtela tutta, non sono mai andato alla ricerca di uno stile, perché lo stile della recitazione mi è stato donato, essendo principe, fin dalla nascita.  Sei curiosa di sapere come si possa accedere alle mie grazie? Non serve denaro, né preziosi regali, il principe prima di concedere il dono della sua ospitalità, formula la sua consueta domanda: “Siamo uomini o caporali?” Perché, mia cara, al mondo ci sono gli uomini,  quelli che soffrono, lavorano e sopportano, e i caporali cioè quelli che fanno soffrire gl’altri, maltrattandoli perché convinti di un’autorità immeritata e, forti di una disciplina, impongono ai sottoposti l’obbedienza senza discussione. Purtroppo, anche il principe cadde nella disgrazia di conoscere questi caporali. Uomini, anzi, caporali odiosi, sempre uguali a sé stessi, fedeli solo alla loro arroganza. Ora, mia cara, avrai già scoperto a chi concedo il dono della mia amicizia. Spesso non serve nemmeno formulare la domanda, perché il principe sa trasformarsi in un gatto regale e come i gatti possiede il senso animalesco dell’amicizia, come i gatti sente subito chi è amico e chi è fetente! C’è un segreto che comunque ti voglio svelare: ad ogni film ho sempre pensato che sarebbe stato l’ultimo.  Perché il pubblico sa essere anche una bestia ingrata, ha degli umori stranissimi, ti dimentica facilmente. Ma appena arrivava questa fottuta paura, al grande principe gli si chiedeva di fare un altro film o di recitare un nuovo varietà. Pensa un po’ che al principe, profondo estimatore d’arte, è stato chiesto di far vivere sul set la vita di un copista, l’unico copista in grado di copiare perfettamente la Maya Desnuda del Goya.

toto 4

 D’ora in poi potrai chiamarmi “Principe de Curtis Goya”. Mi chiedi cosa ci fa il principe con il Goya? Vera e affascinante è la mirabile frase del Goya: “Darò una prova per dimostrare coi fatti che non ci sono regole in pittura”. Anche il grande Totò ha voluto dare una prova memorabile: dimostrare che nell’arte della recitazione non servono regole. Il vero attore non ripete mai una scena. Dove la metti altrimenti l’improvvisazione?

Rammento ancora le parole di Francisco: “L’oppressione, l’obbligo servile di far studiare e seguire a tutti lo stesso cammino, è un grande ostacolo per i giovani che andranno a professare un’arte così difficile.”

E’ tutto così vero, i veri artisti sono i veri innovatori! Solo loro sanno inventare la vita anche quando arriva il tocco maledetto della morte…

arriva mentre reciti in mezzo al cielo…

mentre vivevo in mezzo al cielo.

Quel giorno la recita era in un teatro speciale, il teatro Politeama di Palermo, creato da chi amava il cielo. Pensa un po’, negl’occhi di Giuseppe, il progettista, trionfava il colore azzurro. Azzurri i suoi occhi, azzurri gli occhi della sua amata, e azzurro il cielo che amava così tanto da volerlo mettere nel grande teatro. E dentro, sul sipario, mise pezzi di cielo.

Era così, proprio così, quel giorno avrei recitato in mezzo al cielo! Com’era felice, com’era emozionato il mio occhio bambino. “Chi ha mai recitato in mezzo al cielo?” mi chiedeva incuriosito.

“Noi, noi…Vedrai che meraviglia quando spiccheremo il volo” parole di un vero padre all’amato figlio.  E quel giorno iniziammo a volare nel cielo del grande teatro, volammo nel cielo della vita, felici di esistere, felici di creare ancora “Vere risate di gioia”. Per sempre, le avremmo create per sempre…Noi due, assieme.

Ma improvvisamente l’occhio bambino non parlò più, non rise più. Capisci? Lo sentii morire senza che avesse avuto il tempo di chiedere aiuto. I dolori lancinanti che mi squartavano la testa, quelle lance affilate che mi incidevano il respiro erano la prova che era morto…morto! Capisci? Io ero cieco!! E il cielo diventò nero. Spaventosamente nero.

Anche questa volta, il principe rimase all’altezza della sua carica, della sua divina discendenza. Nessuno del pubblico capì nulla. Soffocai l’urlo e così pensarono che quegli sbandamenti fossero parte del copione. E le lacrime? Anche quelle, parte di un copione e, di quale, nessuno si pose la domanda. D’altra parte il Principe dei Teatri improvvisava sempre. Ma si può improvvisare la vita? Dimmelo tu, che la conosci così bene!

Il pubblico rideva e applaudiva….Riuscii anche a fare la passerella. E quando fuori dal teatro la folla voleva l’autografo, solo un piccirillo, un piccolo bambino, mi chiese: “Come stai principe?” una carezza, i piccoli hanno bisogno di scherzare: “Il principe ha quattro occhi: due occhi come i tuoi e due antenne speciali come le farfalle.”

Nei giorni seguenti pensai di morire, di farla finita per sempre.

Ma si può vedere anche con il nero.

Sì, mia cara…anche con il nero ti riconosco…

Ma che Nina! La vera malafemmina sei tu, compagna da sempre.

Ricorda che al principe spettano ancora risate di gioia!

Principe al buio, ma pur sempre Principe. Ssssh….non dimenticare che i titoli nobiliari rimangono per sempre, anche da vecchi. E oggi ho trovato il modo per rinviare il nostro abbraccio.

Hai proprio ragione mia cara, chi si ferma è perduto!”

 

“E’ vero mio principe!

Io comunque attendo…

Anche la morte può attendere…”

il principe gigante

 

 

Goya: AUN APRENDO-Apprendo ancora

il gigante a riposo

 

 “Ma ne escapado de buena” l’ho scampata bella da una misteriosa e pericolosa malattia, scrive Goya nel 1777 all’amico carissimo Martin Zapatera.

Si parla di sifilide, ma stando agli indizi non sempre sicuri, la diagnosi si dimostra incerta. Il 19 marzo 1793, Martinez, l’amico che ospita Goya a Madrid, informa Zapater delle condizioni del Maestro: “Goya tira avanti adagio, quantunque un po’ meglio…il rumore in testa e la sordità non allentano, ma va molto meglio con gl’occhi e non ha più i disturbi di prima che gli facevano perdere l’equilibrio. Ormai sale e scende le scale, e insomma fa le cose che non poteva fare più”

Alla fine del 1819, all’età di settantatré anni, Goya si ammala di nuovo gravemente ed è sul punto di morire. La malattia, che nel 1793 lo aveva lasciato completamente sordo, si ripresenta con tutti i suoi sintomi.

Goya attribuisce la sua guarigione alle cure del medico Arriete. Durante la convalescenza, l’anno seguente, esprime la sua infinita gratitudine nel dipinto”Goya curato dal dottore Arriete”, esponendo al pubblico il proprio stato di debolezza e di sofferenza. In questo mirabile dipinto, l’artista dipinge se stesso che lotta contro la morte aggrappandosi alle lenzuola. Lo stato di sofferenza è reso misteriosamente dalla ferma sollecitudine del dottore, che si rivela nella forza del braccio che porta la medicina alle labbra del malato. L’iscrizione sul dipinto dice “Goya con particolare gratitudine al mio amico Arriete per la compassione e la cura con cui gli ha salvato la vita nella pericolosa e grave malattia sofferta”

goya e dottore aurier

Arriete, dottore molto conosciuto a Madrid, viene in seguito inviato in Africa a studiare la peste bubbonica. Nel 1825 Goya soffre nuovamente di una malattia debilitante; la sua vista si riduce a tal punto che è costretto a lavorare con una lente di ingrandimento. Ma nonostante la malattia, i suoi dipinti rivelano un’incessante energia. Da uno scritto dell’amico e poeta Moratin,  si scopre che “L’artista dipinge senza correggere mai quel che fa”

Sempre Moratin lo descrive così al suo arrivo a Bordeaux: “Arrivò Goya, sordo, vecchio, torpido e debole e senza sapere neanche una parola di francese, ma tanto desideroso di vedere il mondo”

In questi ultimi anni della sua vita, Goya non perde il suo umore fanciullesco. In una lettera all’amico Zapater si lamenta di invecchiare prima del tempo. Goya scrive l’ultima parte della lettera con il dito intinto nell’inchiostro, come un fanciullo.

imparo ancora goya

Esiste un suo foglio a matita al Prado, numero 54 dell’ “Album G”, di sicuro disegnato a Bordeaux nel 1824-28, raffigura un vegliardo che procede appoggiato a due bastoni; sopra appare la scritta AUN APRENDO “IMPARO ANCORA”, parole che sanciscono l’omaggio di Goya all’eterna giovinezza della vita. Giovinezza data solo con il rinnovamento dell’esperienza.

la tavolozza di goya

Il 1 aprile 1828 (il giorno dopo la paralisi lo arresta, in attesa della morte che giungerà il 15 aprile) Goya scrive all’amato figlio Javier:

” Caro Javier, non posso dirti altro che, con tanta allegria, mi ha sorpreso una piccola indisposizione e sto a letto. Dio voglia che ti veda venire a trovarmi, che sarebbe tanto quanto desidero. Possa Dio concedermi di vederti e allora la mia felicità sarà completa.

Addio, tuo padre”

 

Perché questo scritto?…

Aprile 2018, Sono a Palermo…

dopo tre mesi vedo mio figlio! La felicità è immensa! Siamo assieme al Teatro Politeama, quel grande teatro progettato da Giuseppe Damiani Almeyda il cui sipario splende d’azzurro. Una splendida voce mi racconta che qui, al Politeama, Totò fece l’ultima sua recita.

Qui, il Principe dei Principi, diventò completamente cieco, perdendo anche l’uso dell’occhio sinistro. Da quel momento una domanda forgia le mie giornate a Palermo: si può vedere anche con il nero?

trovo la risposta lentamente, vivendo la storia di Totò…

Entro finalmente nel mio sipario…

divento Totò.

Nel buio vivo una scoperta…

anche con il nero si può vedere…

si  può amare la recita della vita!

per sempre

 

qualche curiosità:

nel 1915 Antonio Vincenzo Stefano Clemente (in arte Totò) si arruola volontario e viene mandato prima a Pisa e poi destinato in Francia. Ma alla stazione di Alessandria, fingendo un attacco epilettico, riesce a farsi ricoverare nell’ospedale militare di Livorno. E’ all’esperienza della vita militare che farà risalire la celebre espressione “Siamo uomini o caporali?”

Nel 1936 Totò perde definitivamente l’uso dell’occhio sinistro a causa del distacco della retina.

Nel 1959 nel film “Totò, Eva e il pennello proibito”, Totò interpreta la parte di un copista che avrà un incarico speciale: copiare perfettamente la “Maya Desnuda” di Goya esposta al Prado.

il 3 maggio 1957, mentre è in scena al Teatro Politeama di Palermo, perde completamente l’uso della vista.  Continua a recitare fino alla fine dello spettacolo e omaggia il pubblico presente con la passerella finale. Il sei maggio lo spettacolo è sospeso con forte disappunto dell’impresario Paone che, non credendo alla gravità dell’accaduto, manda a Totò una visita fiscale.

Il Principe dei Principi, continua a sognare anche nelle parole di questa sua canzone:

Da “Siamo uomini o caporali”,  Totò canta: “O core analfabeta”

toto 2

 

Questo post è dedicato a Maria e a Emily

al dono che ho avuto di vivere assieme cinque splendidi anni.

In quell’ aula trasformata in un magico castello, ci siamo sentiti veri Principi e vere Principesse in un viaggio inestimabile.

Grazie!

A presto

Adriana Pitacco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritratto all’opera

all'opera

 “Camille, da dove comincio?
“Inizia dalla mia morte
Ma trovami tu qualcosa Claude

Magari attimi da vivere tra le ali di una farfalla, questo è il tempo del nostro ricordo”

ritratto di camille

 

Arranco, lentamente, supplicando l’ombra di dissetarmi per l’insopportabile calura estiva. Troppo densa di malinconia è la luce per potermi allontanare dall’interpretare la morte. Rapidamente l’inquieta stanza prova a sedare la folla dei miei ricordi, specchiando il senso dell’agghiacciante silenzio. I miei pensieri navigano senza essere in grado di esplorare nemmeno un vago eco sonoro, una semplice traccia della tua voce, labile impronta della tua identità. Perché dimora la morte nell’assenza dei variegati suoni che ogni voce possiede. Da sempre nel gioco delle nostre abitudini, il fluir della tua voce rappresentava la trama del nostro racconto giornaliero, svelando la nostra complice intimità. Ma oggi, forse, il temperamento del colore può ancora legarci a quel gioco complice dei sensi che fino alla tua morte ha tessuto la nostra vita.
E s’inorgoglisce il carattere supremo del mio sguardo, lo sento: un’inquieta eccitazione è pronta ad indagare i colori che solcano minuziosamente il tuo volto. Rimane comunque una nota introduttiva: l’assenza della tua voce e il tuo dolcissimo volto soffuso ma ancora ricco della tua bellezza. Qualche domanda s’insinua in questo mio, forse delirante, atto esplorativo: quanti dettagli carpiti da questo mio maledetto occhio riusciranno a trasformarti in un ritratto immortale?
Il mio sguardo, il mio occhio, dovrà essere capace d’una raffinatissima tecnica d’osservazione. Sono sicuro che il destino non sarà avverso a questo mio unico scopo di vita: renderti immortale. Improvvisamente la screziatura dell’ora, rivelata dalla luce, m’offre il tuo volto, la tua morte, in una diversa armonia. E così il mio sguardo inizia a scandagliare lo sfondo del colore che appare sul tuo volto, a tracciarne ogni intimo strato per scoprire l’evoluzione sulla trama della tua pelle. In un inedito gioco d’ombra sento in me affiorare l’istinto originario della perfezione visiva. Mentre ti osservo nasce con la mia prima impressione un sortito piacere destinato ad imprimere la tua morte nel vigore della tela, per farti rivivere nella condizione del ricordo trasformato in un infinito presente attraverso il ritratto. Rimane drammatica quest’unica verità: forme e colori non muteranno più con i tuoi lineamenti espressivi, con l’avventura della vita, e implacabile il tempo potrebbe allontanare il ricordo di quest’avventura dalla mia mente. Ma oggi la tua morte sarà riscattata dall’abbandono dell’oblio, in un ritratto all’opera. Ora il mio occhio assorbe i colori della tua morte fondendoli in impressioni distinte, in grado di sedare la rappresentazione dei miei giorni futuri senza di te. Lo sguardo isola i colori, ne scopre il volume, la loro posizione sul tuo volto e il loro ritmo perfetto. Tu, mia dolcissima Camille, lo chiamavi il mio “magico occhio chirurgo”. E, nell’autentica esperienza del colore, l’occhio riesce a godere anche dello spettacolo della morte. Perché solo rimanendo fedele a quest’ occhio il tuo ritratto potrà migrare nel tempo destinato al futuro.
Sono pronto…il primo sguardo, il primo tocco impresso sul pennello…
mentre appaiono sui tuoi solitari lineamenti espressivi, dei toni diversi, più caldi, ideali per far rimanere ancora latente il tuo passaggio dalla vita alla composizione della morte. Vi sono ombre distinte da pigmenti unitari che nel tempo frazionato in secondi si uniformano alla rappresentazione di un tema azzurro. Rimane il tremolio della luce sul tuo volto che si mescola con varie particelle disposte in una tessitura ad arazzo. La perfetta simmetria del tuo volto si sta modellando in una sorta di calligrafia della morte. Ad un tratto vivo con le mie mani ogni strato tattile del tuo delicatissimo volto, ogni pigmento della tua pelle è immerso in colori che fluiscono in un’unica sostanza primordiale, perché da sempre il prodigar della vita scorre nell’esistenza della morte. Anche se per te, mia splendida compagna, il dolce consenso alla morte nasceva proprio con l’atto della vita, senza mai dimenticare che il giorno era un’istantanea, un attimo di luce accreditato nel presente, unico e irripetibile.

camille giappone

E finalmente nel progredir delle linee di questo fertile ritratto si schiude un punto di contatto tra la vita e la morte. Il tuo dolcissimo volto, arenato nella morte, migrerà nel tempo. Nel tuo volo migratorio i sensi dell’osservatore si sorprenderanno a contemplare la natura visibile e invisibile del tuo volto. Immerse le linee all’avvampar del desiderio, saranno esposte al richiamo dello sguardo e i desideri di ogni spettatore viaggeranno dentro al corpo del colore, il tuo corpo.
Finalmente si scioglie la morte, fissando con l’alchimia delle mie mani il tuo volto.
E un’antica eredità lascerà la sua firma sul ritratto del tempo.

Per sempre,
il tuo Claude Monet, devoto compagno

 

Montale, dalla raccolta Xenia

Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
Che tutti siamo già morti senza saperlo

 

L’opera della vita

l'opera della vita

Dalle lettere di Claude Monet

Honfleur 15 luglio 1864- a Bazille

Qui, mio caro, è adorabile, ogni giorno scopro cose sempre più belle. C’è da diventare pazzo, talmente ho voglia di fare tutto, la testa mi scoppia. Decisamente è terribilmente difficile fare una cosa completa sotto tutti gli aspetti e credo che vi siano quasi esclusivamente persone che si accontentano del pressappoco. Ebbene mio caro, io voglio lottare, rischiare, ricominciare perché si può fare ciò che si vede e si capisce e, mi sembra, quando vedo la natura, che sto per fare tutto, scrivere tutto…quando si è all’opera…Ed è a forza di osservare, di riflettere che si trova. Così sgobbiamo continuamente. Sarebbe meglio essere soli e, tuttavia, vi sono molte cose che da soli non si possono intuire. Insomma, tutto questo è terribile ed è un’ardua impresa.

 

 

A Bazille, 12 agosto 1867

Non so davvero che cosa dirvi, siete stato così cocciuto nel non rispondermi, vi ho inviato lettere su lettere, non è servito a nulla, eppure voi conoscete me e la mia situazione meglio di qualsiasi altro. Mi sono dovuto rivolgere ancora una volta a estranei per avere un prestito, e ricevere degli affronti, oh, ce l’ho proprio con voi, non pensavo che mi avreste abbandonato così, è molto brutto. Vi chiedo per l’ultima volta questo favore, mi trovo in una situazione angosciosa, sono dovuto tornare qui per non contrariare la mia famiglia, e poi anche perché non avevo abbastanza denaro per spenderlo a Parigi mentre Camille soffriva. Ha partorito un bel maschietto e soffro al pensiero che sua madre non abbia da mangiare. Ho potuto avere a prestito lo stretto necessario per il parto, ma né io né lei abbiamo un soldo.

 

A Bazille 29 giugno 1868

Mio caro Bazille, vi scrivo due righe in fretta per chiedervi di aiutarmi molto rapidamente, se vi è possibile, sono decisamente nato sotto una cattiva stella. Sono stato messo all’albergo dove ero, nudo come un verme, ho trovato per Camille e il povero Jean un tetto in paese per qualche giorno. Ero così sconvolto ieri che ho fatto lo sproposito di gettarmi in acqua, fortunatamente non è successo nulla.

 

Ad Arsene Houssaye

Egregio Signor Houssaye, quando ho avuto l’onore di vedervi e chiedere il vostro appoggio per ottenere il permesso di lavorare al Salon, mi avete dato il consiglio di venire a stabilirmi a Parigi. A Le Havre, Gaudibert ha avuto ancora la cortesia di mettermi in grado di stabilirmi lì e di far ritornare la mia piccola famiglia. Ci siamo sistemati e io sono in ottime condizioni e pieno di voglia di lavorare, ma su quella mancata ammissione al Salon mi toglie quasi il pane in bocca e, malgrado i prezzi certamente non elevati, mercanti e collezionisti mi voltano le spalle. E’ soprattutto deprimente vedere lo scarso interesse che si ha per un oggetto d’arte che non ha prezzo. Ho pensato, e spero che mi scuserete, che poiché avete già trovato una mia tela di vostro gusto, vorrete forse vedere le poche tele che ho potuto salvare dai pignoramenti e che sarete tanto gentile da venirmi un po’ in aiuto visto che la mia situazione è quasi disperata.

 

A De Bellio Vetheuil 5 settembre 1879

Caro Signor De Bellio, la mia povera moglie è morta questa mattina alle dieci e mezzo dopo aver sofferto terribilmente. Sono costernato nel vedermi solo con i miei poveri bambini. Vi chiedo ancora un altro favore, ossia di far ritirare dal Monte di Pietà il medaglione di cui vi allego la polizza. E’ il solo ricordo che mia moglie aveva potuto conservare e vorrei poterglielo mettere al collo prima che se ne vada. Spero di ricevere un rigo da voi domani mattina
Il vostro amico tanto infelice e tanto da compiangere

 

A P. Durand Reul

Tutto mi tormenta e, nella mia solitudine, mi faccio tanto cattivo sangue. Oggi c’è un tempo spaventoso e altri avrebbero lasciato già da tanto, ma io ci tengo a non perdere ciò che ho iniziato. E’ questa speranza che mi fa rimanere…
il 1 settembre 1914, Claude Monet tormentato dai problemi alla vista e dal dramma di una guerra incombente, lascia all’amico carissimo Geoffrey il testamento della sua vita.

Poter scrivere ad un amico come voi è un conforto che aiuta a sopportare queste angosce.
Molti dei miei sono partiti senza che si sappia dove sono. Quanto a me resto ugualmente qui, a Giverny, e se dovessero uccidermi ciò avverrà in mezzo alle mie tele, davanti all’opera di tutta la mia vita.

 

Nel 1887 Durand Reul inaugura una galleria a New York dove espone anche lavori di Monet. A Parigi Monet riscuote un grande successo da Georges Petit.
Nel 1889 Georges Petit espone Monet e Auguste Rodin ottenendo grandissimo successo. Monet organizza una raccolta di fondi per acquistare dalla vedova di Manet l’Olympia e donarlo al Louvre.

Nel 1921 grande retrospettiva presso Durand Reul

 

Ps: vi chiedo gentilmente di scusarmi, se ho voluto trasformarmi in una leggerissima farfalla. Custodita dentro ai miei amati colori, finalmente sono riuscita a volare per raccontare quest’occhio magico che ci ha donato il ritratto immortale.

Perché si può vedere il mondo ascoltando la voce di un quadro.

camille e i papaveri

 

Questo mio scritto è dedicato a chi mi ha fatto scoprire queste indimenticabili parole
“Sogniamo grandi sogni perché sappiamo di esistere”
A presto
Adriana Pitacco

 

quadri: Camille Monet sul letto di morte, 1879- Ritratto di Camille Monet, 1867- Camille Monet con un costume giapponese, 1876- Campo di papaveri ad Argenteuil, 1873

Foto: Monet in atelier con il Duca De Trevise

musica:  Ravel “Pavane pour une infante defunte” suonata da Sviatoslav Richter

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un dolce segreto

i primi passi 1

Vorrei fermare l’attimo, prima del suo scorrere…sarà possibile?

Riuscirò a cogliere quel tempo prima che passi? L’istante,  prima della sua fine?

Ritornano come perle sgargianti parole che il tempo mi ha concesso di vivere.

“Io catturo la luce del mio tempo vivibile e la proietto sulla tela con tocchi rapidi e vibranti”

il pittore a passeggio

 

MARZO 1981

“Il blu è la tenda del cielo, il verde le nostre praterie, il rosso il sangue della nostra vita sempre in viaggio”. Così ogni Rom racconta, alla propria donna, i colori innalzati al vento della bandiera.

Quale colore dei tre sono io, per Igor? Qualsiasi colore va bene, basta che lo scelga lui. Solo il grande cipresso si è appropriato del confine che passa tra lo spazio orizzontale della lussuosa villa di papà e lo spazio verticale dei violini che furoreggiano in danze trascinanti.

Mi sveglio sempre prima, trangugio la colazione nel tempo record di due minuti, indosso sotto la mia gonna preferita e sopra la solita gonna idiota della scuola.

Ho tagliato anche il collo di una maglia, le maniche le ho accorciate di dieci centimetri: così sono proprio l’azzurro del cielo di Igor! Camuffo il  mio splendido abito con uno dei soliti, noiosissimi maglioni invernali. Operazione raggiunta, piano perfetto! Bacio le guance di mamma dicendole che tornerò per l’ora di pranzo e fingo di ricontare i fogli che userò per la lezione di matematica, così tutto assumerà le sembianze di un vero film. A scuola, l’unica alla quale ho confidato il mio segreto è Danielle, perché di lei posso veramente fidarmi. Le ho affidato l’incarico di raccontare ai professori che l’ultima influenza mi è piombata addosso senza concedermi via di scampo. Anche il professor Claude crederà a questo racconto? Ma chi se ne importa?

Corro, corro perché il vento freddo mi conduca subito a baciarlo. Non ho difficoltà a farmi aprire le porte del loro mondo, non c’è nessuna chiave per entrare nel campo:basta solo spostare con il vento il centro di questo quadro, e mi trasformo nella selvaggia, dolcissima donna di Claude. Rubo già l’ebbrezza del tempo che vivrò con Igor: ogni suo sguardo diventerà il mio paesaggio. Sarò “vagùs”, senza fissa dimora, vagabonda per le vie del mondo.

“Basni, mia rombri rakav il gràste!” Riesco a decifrare la sua parlata e a tradurla in tempi moderatamente rapidi: “Colomba, donna mia, guarda il cavallo”. Lo cavalca senza staffe, tenendo leggermente le redini, correndo intorno al campo brulicante di ciuffi d’erba. I suoi occhi vedono terre sconfinate.

 Da alcuni mesi, sono diventata particolarmente brava a dialogare con le parole dei Rom.  Possiedono un ritmo speciale! Sicuramente  papà le imiterebbe con il pianoforte: accenti, suoni vigorosi, respiri brevissimi tra le frasi, brucianti, forti, come il sangue che scorre nelle vene di Igor.

“Dai, nas, nas” Al suo richiamo salgo sul suo “fururò”, il suo puledro, e lancio al vento il maglione impolverato dall’aria di scuola: ora sono proprio la sua basni! Anche l’aria ha un ritmo incalzante e la sferziamo vibrando assieme nell’unica pausa che c’è, che esiste: la musica del suo bacio.

Quanti punti d’incontro! Toccate e fughe tra due lingue danzanti! E finalmente vivo la mia libertà.

Ma improvvisamente il suo udito guardingo, vigile, gli porta l’eco dei lamenti di Nermina.

Cosa vuole Nermina, seduta con la sua pancia prorompente?

Non oso avvicinarmi, il rispetto per una donna rom si misura nell’intervallo di spazio. Ma Igor sembra stravolto… è solo: tutti si sono recati per barattare cinque purosangue giunti in un altro campo.

Io e Igor siamo diventati così gli unici spettatori della più grande forza della natura. Nessun libro mi ha insegnato come calmare il respiro di Nermina, nemmeno i dipinti di Claude possono bastare a tanto! In un minuto, da purosangue ribelle, Igor si trasforma, diventa docile. I miei occhi lo osservano al rallentatore. Mi accorgo che possiede una pacata lentezza, quasi estenuante: io non la reggo più. Il sangue sta accelerando, impazzito, in un ritmo innaturale, fuori misura. Cosa ci faccio io qui? Perché non ho il potere magico di Igor, di calmare le urla di Nermina?

L’adagio sopra ad una piramide di coperte: qui nella tenda non fa più freddo da quando Nermina soffia il suo respiro caldo dalle narici e pronuncia fieramente: “Jilo…Jilo…Jilo!” Poi la sua voce arriva all’orizzonte, al cielo. Ci sono parole, a noi incomprensibili, che toccano il cielo. Tutto sta, così, precipitando.

Nermina, compiendo l’ultimo sforzo, inarca la schiena e, scovato l’unico appiglio, riesce a sedersi.

Tende le mani, invoca quella testina già rotonda e perfetta che cerca di uscire con prepotenza dalla sua luminosa pelle. Poi esce come un boato, come il fragore di un tuono, come la lava incandescente….

e il primo suono accende la terra….Non ho più parole, sono inutili o forse non ci sono parole per raccontare quest’attimo, l’inizio del rosso, del blu, del verde, di Jilo.

Quanti colori esplodono nell’attimo della vita!

 

Una cascata di colori scende in una tela senza più nessun confine.

Poi apri le tue piccole  braccia, fino a formare un grande arco: con la tua magica, indistinguibile bacchetta dirigerai l’orchestra della tua vita.

Sei riuscito a scoprire questo mio dolce segreto…

E’ un segreto custodito in questa  nascita che si rinnova ogni giorno, in ogni attimo,  unico e irripetibile di questa nostra vita.

E forse è una semplice questione d’amore se desideriamo tanto vivere in una nascita perenne,

in quell’attimo impresso sulla tela della vita,

dentro al rosso, il verde, il blu

Per sempre 

Adriana

 

Da “I versi del capitano”

Pablo Neruda “Il figlio”

Ahi figlio, sai da dove vieni?

Da un lago di gabbiani bianchi e affamati.

Vicino all’acqua d’inverno

io e lei sollevammo un rosso fuoco

consumandoci le labbra

baciandoci l’anima

gettando nel fuoco tutto,

bruciandoci la vita.

Così venisti al mondo.

E per vederti un giorno

attraversò i mari

ed io per abbracciare il suo fianco sottile

tutta la terra percorsi,

con guerre e montagne,

con arene e spine.

Così venisti al mondo.

Da tanti luoghi vieni,

dall’acqua e dalla terra,

dal fuoco e dalla neve,

da così lunghi cammini verso noi due,

dall’amore terribile che ci ha incatenati

che vogliamo sapere come sei, che ci dici,

perché tu sai di più

del mondo che ti demmo.

Come una gran tempesta

Noi scuotemmo l’albero della vita

fino alle più occulte fibre delle radici

Ed ora appari

cantando nel fogliame

sul più alto ramo

che con te raggiungemmo

 

I colori della nascita: Vincent Van Gogh

ritratto azzurro di vincent

Nei suoi dialoghi poetici con Gauguin, Vincent sostiene di battersi per un’arte in cui i colori possano suggerire idee poetiche.

Idea poetica per eccellenza, per Vincent, da sempre, rappresenta la nascita, da lui stesso definita “un frammento dello specchio della vita”.

Dalle lettere di Vincent Van Gogh

Sain Rémy ottobre 1890

Caro Théo

Ora certo tu sei nel bel mezzo della natura, poiché scrivi che Jo sente già vivere il suo bambino- è anche molto più interessante del paesaggio, e sono molto lieto che tutto ciò sia così cambiato per te. Quant’è bello il Millet, i primi passi di un bambino!

 

St.Rémy febbraio 1890

A Wilhelmina

Ciò che mi scrivi del parto di Jo mi commuove molto, sei stata molto coraggiosa e molto buona ad assisterla. In circostanze del genere, quando mi prende il terrore, io sarei come un pulcino bagnato.  Ma infine il risultato è che è nato il bambino, e l’ho anche scritto a sua nonna, che mi sono messo a dipingere in questi giorni per lui un grande azzurro cielo sul quale si staccano dei fiori bianchi. E’ possibile che lo veda presto, verso la fine di marzo. Domani proverò ad andare ancora una volta ad Arles per vedere se sopporto il viaggio.

ramo di mandorlo

 

Alla madre

Fa sempre bene vedere come viene al mondo un essere umano ed è cosa che ha portato più d’uno ad una verità e calma più grandi…

A Théo e Johanna

…ho paura che il bambino soffrirà in seguito ad essere stato cresciuto in città: Jo trova questo esagerato, lo spero, ma bisogna essere prudenti. E io dico quello che penso, perché voi capite che il mio nipotino mi interessa e che ci tengo al suo benessere, dato che gli avete dato il mio nome, vorrei che avesse l’anima meno inquieta della mia…

sfinito 1

 

Maggio 1890

A Théo

Ah, se avessi potuto lavorare senza questa maledetta malattia, quante cose avrei fatto, isolato da tutti, seguendo ciò che il paese mi ispirava! Ma sì, il mio viaggio è proprio alla fine. Comunque ciò che mi consola è il grande desiderio di rivedere te, tua moglie e il bambino, e tanti amici che si sono ricordati di me nella mia disgrazia…

reparto

La vista delle stelle mi fa sempre sognare, come pure mi fanno pensare i puntini neri che rappresentano sulle carte geografiche città e villaggi. Perché, mi dico io, i puntini luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili dei punti neri della carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon, possiamo prendere la morte per andare in una stella.

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Da Respighi “Notturno”

Nel 1962, l’amato nipote di Vincent, rispondendo all’iniziativa dello stato olandese, che proponeva la costruzione di un museo dedicato a Van Gogh,  donò  le opere di sua proprietà alla Fondazione Vincent Van Gogh.

Nel 1973 è lo stesso nipote del grande Vincent, a presiedere all’inaugurazione del RIJKSMUSEUM VAN GOGH ad Amsterdam

Questo mio scritto è dedicato a tutti coloro che vivono il dolce canto di una nascita quotidiana, attimo dopo attimo, così unico e irripetibile.

In ricordo di Nermina, al miracolo della nascita del piccolo Jilo, testimonianza, ancora oggi, della mia vita

Adriana Pitacco

Quadri di Vincent postati: “Contadini con una bambina-primi passi”(1890)-  ” Il pittore che si avvia al lavoro” (1888)  “Autoritratto” ( 1888)  “Rami di mandorlo in fiore” (1890)  “Alle soglie dell’eternità” ( 1882) –  “dormitorio di Saint Paul” (1889) – “Rami di mandorli in fiore” (1890) – “Notte stellata” (1889)

Le parole dei miei dialoghi con Igor, sono parole vere,  che ho amato fin dal suo primo sguardo

 

 

L’ infinito oltre il finito

infinito

Dimora il mio sguardo nell’opacità della morte.

Nude, le ultime rose del giardino mi svelano la loro inesorabile fine, in una solitaria giornata autunnale.

Stanche, implorano un’ultima fioritura, ma la richiesta è vana.

Petali come lacrime del cielo mi riconducono a vegliar domande che da anni sembravano assopite.

Lo sento…

Da giorni si è risvegliata quella misteriosa compagna così attenta a custodire i miei dubbi, le mie domande, a decifrare i miei ostinati silenzi e a lusingarmi con la sua premurosa pazienza.

“Ti aspetto…vedrai…non preoccuparti…ci conosciamo da tempo immemorabile….io e te intimamente siamo legate da un’unica certezza….scorre il tempo mentre un attimo di questa vita ci sta abbandonando per sempre…vita e morte in un’unica verità.”

Questa mia compagna ha un nome insolito.

Si chiama Malinconia. E’ con lei che io venni al mondo, è con lei che iniziai a muovere i primi passi, a intonare la mia tristezza nel cantar la vita alla mirabile conquista di quell’attimo che non sarebbe mai più tornato.

Perché fuggevole è il tempo, misteriosa la sua testimonianza.

Con lei sono venuta al mondo con la consapevolezza della fine.

Oggi, senza nessun pudore, racconto la mia malinconia vera e profonda come questa mia ostinata domanda: “Cosa rimarrà di me quando il mio tempo volgerà alla fine?”

Mi chiedo se sia proprio necessario porsi questa domanda.

O forse il mio è un bisogno?

Improvvisamente mi ritrovo a leggere parole piene di allegria in un messaggio invitante: “Sei pronta per la nostra caccia al tesoro? Prova a indovinare oggi dove sono?”

Noto che sotto al messaggio, mi fornisce una labile traccia….

La smilza inquadratura di un vecchio edificio

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Questo è l’unico indizio proposto da questo figlio, imprevedibile nel farmi scovare il suo particolarissimo tesoro.

Un tuffo nel cuore! La mia risposta è immediata: “Sei dentro al colore del nostro Vincent, nel cortile del vecchio ospedale di Arles, alle soglie dell’eternità!Dove Vincent stava ascoltando il passo di una strana morte: la morte dei sogni, dei desideri negati.”

Così, amato figlio, hai voluto esplorare i luoghi dei racconti che ti dedicavo la sera prima che ti addormentassi.

Venivi cullato con le storie sul nostro amico Vincent e prima della buonanotte sceglievi il quadro dal grande libro magico. Era il quadro pieno di colori che ti avrebbe accompagnato durante il sonno.

Mi chiedo se desideri conoscere quella malinconia così struggente e violenta che ti conduce alla disperazione.

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Cosa sono io agli occhi della gente? Una nullità, un uomo eccentrico e sgradevole; qualcuno che non potrà mai avere una posizione sociale, in breve, l’ultimo degli infimi. Ebbene anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero cosa c’è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno” scrive Vincent a Theo durante il ricovero nell’ospedale di Arles.

reparto

 

Ma si può nascere….

E si può nascere di nuovo

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Caro Theo, la vita passa così, il tempo non torna. Ho il timore di perdere l’unica cosa che mi rimane ancora. Mi accanisco nel mio lavoro. Voglio assolutamente guarire e mi sento come uno che avendo voluto suicidarsi e avendo trovato l’acqua troppo fredda, cerca di riguadagnare la riva”

Solo che a volte il destino non ti concede il dono di questa nuova nascita.

Nel fulgore della mia adolescenza vidi mio padre accecato dal delirio della follia.

Mio padre, cantante lirico, dalla voce impossibile da dimenticare, nel pieno della sua carriera decise di consacrare il tempo alla ricerca del canto perfetto, sublime…

Forse per lui divino…

“Quando tornerai?” erano le mie uniche parole prima del suo rapido saluto, prima di quella rituale risposta: “Tu non puoi ancora capire, ma ho bisogno di assoluto silenzio! Niente può distrarmi…Devo trovare quel canto…”

“Quale?” continuavo a chiedergli.

Ma non poteva concedermi altro tempo perché iniziava il suo lungo esilio, il suo peregrinare da un grande Maestro ad un altro, dimenticando in fretta di avere una figlia.

E un giorno scordò pure di esistere.

Nel groviglio delle mie domande mi ritrovai a tentar di districare qualche sua parola nel vano tentativo di riconoscermi.

Forse l’unico barlume di lucidità di mio padre rimaneva il movimento stranamente ossessivo e improvviso delle sue mani. Ero sicura che quel battere compulsivo della mano destra servisse ad accompagnare ritmicamente un canto lontanissimo, da lui solo conosciuto.

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Ritornai puntualmente dentro all’ora riservata alle visite, ma scoprii una maledetta pazzia pronta a recidere il flusso sanguigno dei ricordi, a sradicare mio padre da ogni intimo rapporto con il quotidiano.

Quel canto sublime, quel canto destinato a un unico abbraccio con il mio mondo si dissolse in lacrime senza voce.

Mio padre non parlò più per lunghi e interminabili mesi.

Un’unica domanda forgiò i miei giorni:  “Come avrei potuto aiutarlo?”

Tormentati dubbi, rabbia e amore divisero le nostre strade…nessuno dei due riuscì a consolare la propria solitudine.

Poi scomparve l’odore acre della morte, si defilò ogni mio tentativo di risposta…

La regia di un misterioso destino librò nell’aria il vero ritratto della musica: mio figlio.

Splendido figlio che sei capitato a me, a tuo padre…

A noi nell’impeto della nostra giovinezza

Sei capitato tu! Un angelo caduto dal cielo,

un angelo in grado di suonare la vera musica.

Perché ogni tuo suono si staglia nitido e fiero nel bagliore della vita concepita come nascita perenne, nella fioritura di desideri vissuti profondamente nel chiarore d’ogni attimo vitale.

E suoni!

Suoni ogni sospiro dell’esistenza desiderando l’armonia del presente, senza vagabondar invano nel tradimento dell’esistenza.

E suoni…

Suoni…felice di esistere!

Assieme io e te, ogni giorno, accordiamo la tastiera della vita con questa nostra intima promessa:

Promettimi Anima che racchiuderai una sola delle mie parole

In uno dei tanti suoni dell’aria.

Promettimi che diventerò l’impronta del tuo bacio sonoro.

Promettimi che quando salirò a te

io ascolterò il richiamo del tuo dolcissimo pianto.

Io ti prometto che ritornerò tra le tue mani

ad essere quel dolce istante disegnato nel tempo

E’ una dolce promessa

 

Perché finalmente so cosa rimarrà di me…

Al di là della mia morte

 

Questo post è dedicato a mio figlio Gianluca, pianista dell’anima…

Perché all’ultimo sguardo con la vita, sgranerò gli occhi e con lo sguardo di un bambino velato di meraviglia, offrirò alla morte l’ultimo bacio, l’ultimo consenso, sicura di aver vissuto, grazie a te.

Grazie!

 

L’infinito in Vincent Van Gogh

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Dalle lettere di Vincent

“Fratello caro, talvolta so così bene ciò che voglio. Nella vita e nella pittura posso bene fare a meno del buon vino, ma non posso, io che soffro, fare a meno di qualcosa di più grande di me, che è la mia vita, la potenza creativa. E con un quadro vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica.

Vorrei poter dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui una volta era simbolo l’aureola, e che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori…

 

…Perciò sono sempre fra idee contrastanti, le prime, le difficoltà materiali di girarsi e rigirarsi per crearsi un’esistenza, le seconde, lo studio del colore. Spero di scoprirci sempre qualcosa lì dentro. Esprimere l’amore di due innamorati con l’unione di due colori complementari, le loro combinazioni, le vibrazioni misteriose dei toni ravvicinati. Esprimere il pensiero di una mente con il raggiare di un tono chiaro sul fondo più scuro. Esprimere la speranza con le stelle. L’ardore di un essere con la luce di un tramonto.

Qui, ad Arles vorrei fare il ritratto di un amico artista, che sogna i grandi sogni, che lavora come l’usignolo canta perché è questa la sua natura. Vorrei mettere nel quadro la stima e l’amore che ho per lui.

Lo ritrarrei dunque così com’è, più fedelmente possibile, per cominciare. Ma il quadro non sarebbe terminato così. Per finirlo farò il colorista arbitrario. Esagererò il biondo dei capelli, arrivando ai giallo cromo, al limone pallido.

Dietro la testa, invece di dipingere il muro banale del misero appartamento dipingerò l’ infinito

Attualmente crediamo ancora che la vita sia piatta e che vada dalla nascita alla morte. Solo che la vita è probabilmente rotonda e molto più vasta in estensione e in capacità dell’emisfero che noi attualmente conosciamo.

…E’ veramente un fenomeno strano che tutti gli artisti siano materialmente degli infelici. Ciò riporta a galla l’eterno problema: la vita è tutta visibile da noi, oppure noi ne conosciamo prima della morte solo un emisfero?…”

 

infinito

 

A presto

Adriana Pitacco

 

Io ti vivrò

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Una grondante nebbia s’inerpica lungo l’aria e l’umidità zittisce i miei passi stanchi, terribilmente stanchi.

 Non preoccuparti…. tra qualche giorno non sarai più solo.

Rispondo ancora garbatamente alla giovane infermiera preoccupata che una povera vecchia affronti ogni giorno questo viaggio per ritrovare il tuo sguardo, il tuo respiro, qualche tuo cenno. Ma, anche a due poveri vecchi, la vita ha concesso il dono di vivere questo amore e di viverlo sempre, decisamente sempre.

E’ la mia piccola impresa quotidiana essere qui, vicino a te. E impetuosa ora la luce sverna lungo la stanza, spolverando le poche foto che ti hanno concesso di tenere accanto a te. Foto sbiadite, dai contorni non ben definiti, dalla datazione non chiara… così le potrebbe definire qualche infermiere di passaggio. Per noi invece, poveri vecchi, sono i nostri trofei, le nostre piccole gioie. Con la tua inseparabile macchina fotografica, che chiamavi la macchina della meraviglia, ti divertivi a fissare il racconto del nostro diario quotidiano. “Che banalità!” potrebbe commentare qualche ben pensante, senza comprendere che desideravi rappresentare quello che tu definivi “L’attimo dell’esistenza”, unico e irripetibile.

Ma oggi? Dove troverò quest’attimo irrinunciabile?

Anche oggi ti hanno lasciato dentro al tuo piccolo feudo circondato dalle antiche mura che impediscono la tua rovinosa caduta sul pavimento. Il feudo, quel misero letto, transennato da un’invalicabile ossatura di ferro. Beffarda la malattia si diverte a oltraggiare  il tuo corpo, le tue esili forze. Singhiozzano i tuoi scarni movimenti assediati dalla fase finale della malattia. Secondo i medici nessuna parte del tuo corpo ora potrà ammutinarsi contro la tua inesorabile fine. Agguerrita la morte sta posando sul tuo corpo la sua dannata calligrafia, manca solo la sua firma nell’atto finale.

Continuo a scovare le loro parole; sono convinti che una povera vecchia non possa comprendere nulla delle loro sentenze. Dicono che hai smarrito l’abilità dell’uomo di riconoscere gli eventi giornalieri, di modellare i lineamenti del tuo volto sulla base dell’armonia delle emozioni. Per gli altri sei un vecchio, un maledetto vecchio, con un volto di selce, un volto pietrificato con uno sguardo assente, terribilmente senza memoria.

Provo a lacerare il dolore, ad annientarlo fino a trasformarlo infinitamente nel nulla…

Vedo le tue mani da mesi intorpidite da una rancida artrosi, impazienti nel rispondere alle mie carezze. Le osservo mentre si  trasformano in minuscole ali nel tentativo di librarsi in aria per far aderire l’innato istinto comunicativo al cenno del saluto.

Qualche attimo, io aspetto…

Ma friabili, delicatamente friabili, le tue minuscole ali di farfalla vengono recise da ogni intenzione comunicativa. Insopportabilmente ferme non sono più in grado di far confluire lo sguardo al movimento. Mentre asciugo le tue silenziose lacrime, che si sgranano come perle sul tuo volto usurpato dal dolore, riprendo la mia, la nostra abitudine quotidiana: appoggio le mani sulle tue e assieme accompagniamo gli occhiali a rivestire il tuo sguardo che implora ancora il mio volto.

Ora lo so! Lo sento…

Comprendi ancora le mie parole, i miei pensieri…

Ma non aspetto il levar delle tue risposte…

Non sforzarti! E’ un sacrificio che ora non ti puoi permettere.

Voglio solo stringere i giorni che ci rimangono come una nostra solitaria opera d’arte.

E improvvisamente sgombra da ogni tristezza, avvampa la stanza della luce dei nostri ricordi, s’allarga lo spazio veleggiando in nuovi mari, ad ogni tratto di costa approdiamo in nuove terre, conquistiamo un po’ di tempo, un gruzzolo di giorni senza l’assillo della fine.

Rivedo germogliare la melodia del tuo volto per custodire il lievitar delle nostre ore. In volo, attorno a te, divento l’unico pianeta in grado di compiere un viaggio attorno alla tua immagine. E il viaggio vive, prosegue nella cosmologia del quotidiano. Abbandoniamo l’urlo malinconico, mentre assieme viviamo il desiderio di rintracciare il tenero olfatto delle nostre abitudini, il nostro intimo racconto. Ma cos’è per noi due l’infinito se non una serie di unici istanti vissuti nel progredir di dolci abitudini? Come la nostra irrinunciabile abitudine di leggere il nostro inseparabile giornale. Perché mai e poi mai abbiamo tradito il nostro diritto inviolabile alla conoscenza per poter comprendere i cambiamenti di un mondo così tremendamente veloce a idolatrare false notizie, ma soprattutto a rappresentare i cambiamenti attraverso una scrittura che fluisce in false notizie degne di un’opera buffa. Ma noi, anche da vecchi, quell’opera buffa, abbiamo il dovere di dissacrarla, di scoprire le cause di quelle assurde mistificazioni. “Anche da vecchi vogliamo essere liberi di conoscere, di comprendere” Queste tue parole erano semplicemente l’overture prima d’iniziare il lento processo della lettura. Lento e spesso insopportabilmente faticoso.

Durante la scarna decifrazione delle parole scritte, i nostri occhi cercavano di rimanere ancora frizzanti nel temperamento. Qualche attimo d’illusione… La vecchiaia ci concede anche questo.

Poveri sguardi! Continuavano ad annaspare nel tentativo di definire rapidamente ogni tratto visivo che si potesse configurare in un’immagine nitida e precisa. Ma l’ostinata testardaggine fa parte di quella regalia che il tempo, con l’avanzar degli anni, si è premunito di offrire in dono a due poveri vecchi. E così, come un’opera paziente, degna della più nobile musa, univamo ogni frammento, ogni minuta lettera, e durante il laborioso procedere lo sguardo si riappropriava della capacità di leggere, di esplorare la scrittura e finalmente poter affermare la nostra libera testimonianza.

Siamo considerati vecchi e malati di malinconia, ma con la tua dolce malinconia mentre scrutavi il cielo mi rivelavi questo segreto: “Ricorda…c’è un inizio e una fine nella trama ordita dal tempo, ma non dimenticare mai il nostro minuscolo pezzo di cielo….solo così il tempo non avrà il senso della fine.” Poi il sorriso e la tua mano alla ricerca della mia, perché io sapevo esattamente cosa rappresentava per te questo minuscolo pezzo di cielo: era semplicemente ogni attimo unico dell’esistenza, unico e irripetibile di questa nostra lunga storia d’amore.

Sei stato il mio ambasciatore di gioia. Ma oggi naviga il nostro pianto mentre s’accarezzano le nostre parole al passo della memoria.

Era la carezza dei tuoi occhi che conosceva ogni mio desiderio.

Io ti guardo…

Anche se per gli altri il mio è solo lo sguardo di una povera vecchia, così assurda perché follemente innamorata.

Io ti guardo….e mi sento un Dio pronto a varcare il suo nuovo pianeta, la sua nuova creatura.

Un passo verso di te e un infinito sguardo per la mia storia di donna.

Sai…sento di nuovo il suono dei tuoi passi nel naufragio della morte e ti rivedo nel nostro ritmo giornaliero.

Scorgo i tuoi sorrisi, formidabile patrimonio genetico nel grembo del nostro giorno.

Corpi celesti nell’intima pausa di noi.

Le mie parole si scontrano con la voce gracchiante della capo reparto che annuncia la fine del mio viaggio giornaliero.

Ma non preoccuparti…domani il mio viaggio continuerà, sarò ancora qui.

Un altro bacio…

E ora lascia riposare il silenzio.

Noi due assieme ritorneremo a vivere il nostro piccolo pezzo di cielo.

E vivremo come lo spirito di una farfalla…

mentre il tempo ci concederà un po’ di tregua sancendo un armistizio con la morte.

Esco…

Con passi pallidi m’incammino a riprendere il nostro intimo racconto.

Ma scoppia il cuore in un silenzioso pianto.

 

 

L’ARTE DI AMARCI PER SEMPRE: Bella e Marc Chagall

 chagall e bella

 Ci sono parole che rispecchiano la vera essenza della vita, il mistero di quell’incanto poetico che compie miracolosamente l’atto dell’amare

” Tu ti getti sulla tela, che trema tra le tue mani, afferri il pennello, premi il colore dei tubetti: rosso, azzurro, bianco e nero. E mi trascini nel torrente dei colori. Improvvisamente mi sollevi dal suolo e tu stesso ti dai lo slancio con un piede come se la piccola stanza fosse troppo angusta per te. Tu balzi su, ti stendi in tutta la tua lunghezza e voli verso il soffitto. Ti pieghi al mio orecchio e mi mormori qualcosa…e tutti e due insieme saliamo leggeri, leggeri e voliamo via tenendoci per mano…

Giungiamo alla finestra e vogliamo passar fuori. Dalla finestra ci chiamano una nuvola ariosa e un pezzo di cielo azzurro. Le pareti, addobbate con i miei scialli variopinti, ondeggiano intorno a noi e fanno girare la testa. Noi voliamo sui campi fioriti e case di legno con le persiane chiuse, su campagne e chiese.”

Sono le parole di Bella Chagall, parole che al pari di un quadro, rendono visivamente la pura ebbrezza dell’amore.

i due innamorati

E’ la formula magica dell’amore che Marc Chagall intuisce fin dal primo incontro con Bella. “Il suo silenzio era il mio, i suoi occhi i miei. Sentii che mi conosceva da sempre, vedeva la mia infanzia, la mia vita presente e quella futura…”

E l’incanto prosegue nella cosmologia della vita quotidiana…

“Bastava che aprissi la finestra della stanza” scrive Chagall ” e subito entravano d’impeto insieme a lei l’azzurro, l’amore e i fiori. Vestita tutta di bianco o tutta di nero, già da tempo s’aggira come uno spirito nei miei quadri, come ideale per la mia arte”

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Arthur Rubinstein suona di Franz Liszt, “Liebestraum”, sogno d’amore

Questo post è dedicato a Lorena, al viaggio incantevole della nostra amicizia che approda ogni giorno nei luoghi magici delle nostre parole…

luoghi…attimi del nostro divenire dentro al paesaggio dell’anima

A presto

Adriana Pitacco

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La ricerca dell’eternità

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A Emma, che con la sua risata cristallina e con il suo coraggio mi conduce alla vera essenza della vita e mi ricorda queste parole: “Questa vita insieme intera, piena e indivisibile in ogni senso, che inerisce all’essere….ed è nell’essere di ogni individuo l’eternità che cerchiamo”.

Secondo quanto riferito dalle autorità locali, il nuovo centro d’accoglienza per immigrati si trova in una zona ridente, particolarmente adatta a far vivere gli ospiti in un clima gioviale finalizzato alla collaborazione, a far crescere in loro il desiderio di vivere assieme. Un luogo definito dai quotidiani locali come “oasi di pace”, nel silenzio celebrativo della multiculturalità. Mi ostino comunque a non tralasciare mai i miei dubbi: non ho perso l’abitudine di mettere a soqquadro idee, giudizi così ben architettati, costruiti abilmente…Ma per chi?

Riesco ancora a mascherarmi da persona avveduta, ossequiosa verso chi continua a osannare quel fertile e caritatevole amore per il prossimo che rapidamente si sta diffondendo dentro al campo, dentro a quel grande grembo materno nato per accogliere i desideri di vite finalmente non più tradite. E il centro, questa madre attenta e premurosa, si prodigherà in tutti i modi, perpetuando immensi sacrifici per soddisfare amorevolmente l’esistenza della sua nutrita prole. Oggi, questa fertile madre, ci concede il dono di poter ammirare le sue doti organizzative, unite a un sano spirito d’abnegazione. Trionfante, decisamente trionfante, decide di accoglierci, sicura che assieme festeggeremo le sue grazie materne. Mi travesto, implorando a me stessa di scovare qualche verità.

Entro, il calore divampa nell’aria mentre le corolle fiammeggianti guizzano viscide dentro l’aria stagnante.  Arranco grondante di sudore, alla ricerca di un lembo d’aria fresca.

E alla luce delirante del sole si ricompone il silenzio del mio sguardo.

Gli occhi rapaci cercano di rapire nel più breve tempo possibile quello scorcio di paesaggio umano mutilato, orrendamente deturpato, privato della sua dignità. Corpi violati dalla fame rantolano brevi passi per mendicare del cibo senza il brulichio di insetti.

Poi spuntano come germogli stanchi i volti di giovani donne, mentre sciamano in un impietoso silenzio i loro desideri. Sferzati dalla solitudine inaridiscono i loro pensieri. Sono volti che si muovono con sgomento e orrore. Le sentinelle del campo arrivano come scimmie abilmente ammaestrate, iniziano a fischiare, a sibilare come serpenti nella sabbia, pronte ad adocchiare nuove prede.

Si annidano davanti ad ogni recinto, intente a falciare ogni passo di chi possiede ancora l’istinto della fuga.  Lo chiamano “semplice istinto animalesco”, di chi non possiede nessuna dose di raziocinio, nessuna dose di gratitudine. Il loro è un compito particolarmente oculato: rintracciare i passi di chi cospira contro il rigore educativo del campo, contro l’amore caritatevole offerto a quei poveri selvaggi. Ben presto saranno educati a rispettare le regole di convivenza, a non tradire il loro dono quotidiano.

Tutti, compresi donne e bambini.

E così si sfregia la vita nell’urlo silenzioso del campo.

 

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Scialba la natura è costretta a non rivelare nessuna traccia del loro dolore.

Cammino, sostituendo i pali di filo spinato con alberi dalla chioma rigogliosa, rammentando che ad ogni ora il sole sicuramente mi offrirà i suoi colori, dentro ad ogni attimo di luce, dentro all’attimo vivo dell’esistenza.

Ma rimangono ancora da contare le innumerevoli gabbie che ospitano chi ha deciso di arrendersi. Volti vitrei, corpi terrosi, naufragati qui, nell’isola della morte, sono rannicchiati in angusti scheletri metallici con la vaga parvenza di letti. Nell’oblio della letargia rimangono ancora in posizione fetale. Perché?

Sono volti, corpi snidati dalle loro case, dalle loro intime abitudini quotidiane.

Ma anche in una vita smembrata della sua linfa vitale rimane ancora il respiro della nascita. E così mi trasformo in una venditrice ambulante di sogni per trasportare questi corpi senza più identità nell’istinto della vita. Prima di vendere qualche sogno, provo a cullarli teneramente.

Poi aspetto che qualcuno mi ascolti, mentre una luce giocosa vibra fremente in due piccole mani che mi invitano a seguirle.

“Vieni…la mamma ti vuole vedere! Ti ha riconosciuta sai! Lei vuole farti vedere la nostra tenda…mamma dice che nella nostra tenda si vedono i colori del cielo”

Occhi vispi, chioma arruffata, sembra un piccolo gatto selvatico che si districa abilmente dentro al reticolo del campo.

Ancora qualche passo e finalmente l’infanzia del giorno si svela in una risata giocosa che mi offre il suo saluto: “Oh, non hai perso l’abitudine di cacciarti nei guai!” Provo a scovare ogni minimo dettaglio.  Mani ossute spostano ciuffi di capelli neri ormai pronti a languire col tempo che avanza, il volto tradisce la sofferenza dei giorni vissuti al centro, ma la sua voce rimane fiera a tributar domande: “La vedi, dolce amica? Anche qui, in questo merdaio, ho saputo costruire la mia tenda blu, verde e rossa…perché blu è il nostro cielo, verde la prateria degli uomini liberi e rosso…Sì! Rosso…il sangue della nostra vita sempre in viaggio! Ma qui… in questo grande centro d’accoglienza?” Qui i bambini possiedono come unico gioco quello di contare questi fottuti scarafaggi che si inzaccherano dentro questa merda d’acqua. Ma almeno gli scarafaggi possono lavarsi, asciugarsi di nuovo al sole… Qui in questo merdaio, le fottute bastarde, le mosche, l’odore della specie umana lo trovano sempre più invitante.

Spariscono le lacrime dagli occhi rimasti ancora splendidamente intensi. Non riesco a staccare lo sguardo dal suo, penetrante, incredibilmente ravvivato dal flusso dei ricordi.  Osservo le sue mani appoggiarsi dolcemente sul suo grembo, riconosco quella voce squillante che raduna la sua ciurma per andarsene verso il marciapiede sventrato dal sole. Perché alle sette in punto gli ospiti vengono chiamati dalla dolce madre per il dono giornaliero: una manciata di infima brodaglia. Inflessibile rimane ancora la sua rabbia, come il suo indomito coraggio: “Siamo considerati dannati! Sporchi dannati! Ma noi da questo posto ce ne andremo… Anche questo figlio nascerà con lo sguardo verso il cielo! Ricorda….Siamo solo passeggeri del mondo….a volte partiamo, ce ne andiamo in luoghi lontani”.

Un vivo silenzio piomba tra i nostri complici sguardi.

Volano i ricordi come rondini.

Riconosco il tuo coraggio abituato a scovare nel buio notturno ogni sentiero che ti guidava fino al piccolo ospedale da campo. Rivedo ancora quell’ombra che si dileguava nell’oscurità, perché solo di notte potevi evitare di essere identificata per poi essere arrestata. Che colpa avevi?

La chiamavano “pulizia etnica”….

E prima di annientare la tua vita, ti concedevano il dono di scegliere come sarebbe avvenuta la tua morte: machete? Colpi di arma da fuoco? Bastoni chiodati?

Un dono concesso anche a tuo padre…

 Una regalia che non aveva dimenticato vecchie malandate come tua madre….Un modo per eliminarle il dolore della malattia, così era stata definita la sua uccisione.

D’altra parte non potevi certo far parte della “forza civilizzatrice del mondo!”

Al primo controllo dei documenti, per le giovani donne che appartenevano alla tua etnia, lo stupro diventava il preludio inesorabile alla morte.

Ascolto di nuovo le tue lontane parole, lì, al piccolo ospedale, mentre ti battevi i pugni sul ventre: “Guarda! Guarda questo figlio! Non sorride più!! Gli è rimasto solo un occhio per guardare, l’altro si è chiuso! Non cammina più….”

E oggi?…

Vedo nei tuoi occhi l’eternità che cercavo.

S. Rachmaninov, Cello Sonata op. 19, terzo movimento

 

Pablo Neruda,  “Il popolo vittorioso”

 

Il mio cuore è qui, in questa lotta.

La mia gente vincerà. Tutte le genti a una a una vinceranno.

Queste pene si spremeranno come fazzoletti per asciugarsi di tante lacrime

sparse sui pozzi e sulle tombe del deserto, sopra i gradini del martirio umano.

Ma è vicino il tempo vittorioso.

Che serva l’odio perché non tremino le mani del castigo,

e che l’ora giunga precisa nell’istante puro,

e empia il popolo le vie vuote con le sue fresche e ferme dimensioni.

Sta qui, per quell’ora, la mia dolcezza.

La conoscete, non ho altra bandiera

 

 Théodore  Géricault:  il coraggio e l’eternità nell’arte

 

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Erano giorni che quell’idea martellava continuamente la mente di Théodore; in fin dei conti la sua fama di pittore avrebbe potuto realizzarsi attraverso un quadro dalle dimensioni imponenti: un quadro sbalorditivo in grado di suscitare emozioni forti, violente, magari anche contrastanti, magari anche ripugnanti, ma nessuno di fronte al quadro sarebbe rimasto indifferente, distaccato dalla tragicità della visione. Un quadro, quindi, in grado di raccontare la forza inestimabile del coraggio dinanzi all’angoscia della morte.

Poteva essere considerata solo un semplice caso fortuito la notizia raccapricciante che i quotidiani stavano diffondendo con una certa dovizia di particolari macabri? Allo stremo delle forze, in una zattera pullulante di cadaveri, erano stati ritrovati alcuni superstiti del naufragio della fregata francese avvenuto il 2 luglio, davanti alle coste della Mauritania. Le testimonianze dei superstiti erano andate al di là di ogni possibile deduzione….Travolti dalla disperazione avevano violato un tabù insito nella dimensione umana: negli ultimi giorni, prima del ritrovamento, avevano alimentato il loro corpo con la carne dei cadaveri.

Vita, morte, totale disperazione….elementi che il destino stava offrendo a Théodore perché la sua arte li rappresentasse in un dipinto che avrebbe consacrato alla storia le sue doti.

Prima di tutto, era necessario far trasmigrare la realtà spietata dell’evento sullo spettro cromatico, quell’abito misterioso che la tela avrebbe indossato. Un tono tragico avrebbe fornito, fin dall’inizio della visione, l’impatto emotivo del dramma.

Rintracciò due superstiti per appurare la veridicità delle informazioni lette e scovare ogni tassello utile a fornirgli quel vortice di emozioni che aveva travolto i naufraghi.  Ascoltando il loro racconto, Théodore scoprì come la  morte, la disperazione, dentro alla zattera confabulassero con l’istinto della sopravvivenza.

Fin dall’inizio della testimonianza dei due superstiti, Théodore decise di non farsi intimorire da nessuna paura che avrebbe potuto emergere dal suo inconscio; paure rimaste finora latenti, come la paura della morte. Ascoltò con la massima dose di raziocinio, paragonandosi ad un investigatore in cerca di indizi per scoprire il colpevole, in realtà era semplicemente un oculato investigatore affamato di ogni dettaglio per poter rendere visivamente, con la propria opera pittorica, la tensione emotiva che aveva flagellato la vita dei naufraghi dentro la zattera.

L’incubo del cibo che mancava, dell’acqua imbevibile, dell’odore putrido che si radicava  dentro il corpo dei morti, del sole che friggeva ogni lembo di pelle, si mescolavano con un incredibile coraggio, con l’intento di sconfiggere fino all’ultimo respiro la sorte avversa.

Avrebbe iniziato il dipinto scrivendo sulla cornice un’unica verità

” L’unico eroe in questa toccante storia è l’ umanità”

la-zattera-della-medusa-1

 

A Emma, vera passeggera del mondo

 

A presto,

Adriana Pitacco

 

La tela del crepuscolo

la danza crepuscolare

Ultima lettera per gli amici…

ultime parole scritte, perché forse questo Dio, da me finora rinnegato, mi concederà la grazia di lasciare a te, caro amico, il mio ultimo dipinto, un dipinto scritto.

I miei occhi da giorni stanno vivendo una solitudine crepuscolare. Frammenti di luce svelano le ultime esili ombre di figure, di volti in strade ormai troppo lontane. E vecchio, tristemente vecchio, sorretto solo dalla malinconia del colore, tento di conferire a questi frammenti una fisionomia riconoscibile alla mente, alla memoria. Lo sforzo è immane, caro Paul, e spesso, troppo spesso, vano, perché il buio disorienta anche la mente mentre il più triste dei pensieri si annida dentro ad un ostinato silenzio. Non penso che alla morte, mio caro amico, niente di più triste della degradazione di una così nobile esistenza ad opera della vecchiaia. Niente di più assolutamente vero! Dov’è finito il tempo in cui mi sentivo forte, quando ero pieno di progetti? Sto scendendo la china molto alla svelta, rotolando non so dove, mi trovo avvolto in moltissimi pastelli, come in una carta d’imballaggio. Tu sei l’unico in grado di condurre questa lettura, di cogliere il vero ritratto delle mie parole. E oggi la vecchiaia consola la mia solitudine offrendomi il desiderio di svelare alle persone amate l’intimo sguardo della mia esistenza. Senza che nessun timore, nessun dubbio sulla mia incapacità d’amare, possa tradire questo desiderio. Perché chi ama, non si prodiga alla ricerca di rendere perfetto il suo amore, di lavorarlo e architettarlo quasi alla stregua di un dipinto, secondo i più puri canoni estetici. Ama, ubriaco dell’imperfezione.

Ubriaco di quel corpo che folgora il suo desiderio, ama mentre lo sguardo della donna amata rivela il mistero dell’esistenza. Ogni innamorato possiede quel fertile dono che rappresenta il tratto distintivo del poeta. Come un canto le parole si trasformano in verità inconfutabili, volte a raggiungere un abbraccio universale…

Forse anche con Dio.

Io, povero vecchio, follemente cieco d’occhi e di novità, m’intenerisco al pensiero di non averti mai rivelato quanto le tue parole, la tua leale amicizia, sia stata così fertile per la mia vita. Oggi, mio caro amico, mi rimane solo questa compagna: la memoria. L’unica compagna che possiede ancora il dono di non tradire ciò che l’occhio nella mia lunga vita ha registrato, vissuto. Ma fino a quando?

Ssssh…non offrirmi nessuna risposta

Anche oggi desidero da me stesso una perfetta solitudine, ma diversa da quella solitudine che esigevo nella mia età feconda, fermamente sicuro che solo la solitudine mi avrebbe donato il tempo necessario per giungere alla perfezione dei miei dipinti. D’altra parte la solitudine ha spesso accompagnato i protagonisti dei miei quadri, come la malinconica figura femminile di quel dipinto che tu rinnegavi per la sua struggente solitudine. “Lascialo da solo quel quadro! Sì, quel quadro così assente!  Non vedi che quella povera donna l’hai inebetita con l’alcool della tua tristezza !”

l'assenzio

Queste erano le uniche parole sferzate dalla tua rabbia, perché per te l’arte era ed è puro ed esclusivo giovamento, mai solitudine. Oggi questa solitudine è solo la consapevolezza della mia esistenza, quel senso di intimo raccoglimento che si svelava solo quando il mio sguardo s’appoggiava delicatamente su quel volto per sfiorare la melodia delle linee e cogliere con un’unica carezza le tonalità dell’incarnato. E allora lì, in quel preciso momento, si compiva un miracolo al quale non ho mai posto nessuna rivelazione, nessun possibile chiarimento. Perché quel miracolo c’era, esisteva, e se avessi posto la mia mente a tributar domande forse sarebbe scomparso per sempre e mai più si sarebbe rigenerato. In quell’incontro scoprivo che quel volto apparteneva alla vita e omaggiava il mio sguardo dei suoi eventi giornalieri, della sua storia. E il ritratto, che si raffigurava già nella mia mente, nell’ardore delle mie mani, si mescolava alla vita!

Diventava assoluta la mia commozione quando il mio occhio riusciva a fermare nel modo più preciso e convincente un particolare atteggiamento del corpo, quello che tu chiamavi l’impronta del cuore, per comprenderne l’anima. Prima di tradurre in espressione artistica quest’attimo inconfutabile, mi assillavo a comprendere quanto di questa verità sarebbe rimasto impresso in modo indelebile nella memoria.  Comunque, sovrano incontrastato dell’atto creativo, rimaneva sempre il mio occhio, intento ad osservare ogni percettibile movimento, ogni modulazione di linee, pronto a vestire di storie, di vita, il volto che avrei ritratto, il corpo che avrei rappresentato. Trasformavo la tela grezza della mia esperienza visiva in un processo d’esplorazione.

il mercato del cotone

Tu, mio caro amico, lo chiamavi “disposizione dell’anima”, io oso definirla semplice disposizione dell’occhio,  che mi accompagnava sempre, dal primo albore della mia giornata.

Parole leali erano le tue, quando mi dicevi che riuscivo nei miei quadri a compenetrare il soggetto come un poeta. Io, comunque, non mi sono mai raffigurato nella veste di un poeta, non possiedo il tuo dono.

Figuriamoci nella veste sacrale di un genio! Ogni mio quadro era il frutto di una lunga e sofferta meditazione. Il lungimirante confronto con la mia ancora esile arte e le opere dei grandi maestri mi portava a non accontentarmi mai delle mie opere. Perennemente insoddisfatto ci ritornavo sopra, qualcuno osava dirmi in modo ossessivo.

Spesso quando andavo a trovare qualche acquirente dei miei quadri notavo con solerte aria divertita che i quadri non erano appesi alle pareti. Come un’aquila nasconde le sue prede, il povero acquirente nascondeva le opere del maestro.

Le mie opere, che al mio sguardo sarebbero apparse ancora incompiute, opere che avrebbero acclamato a gran voce di ritornare a casa per qualche semplice ritocco. Ma forse, con il passar delle ore, il ritorno si sarebbe moltiplicato in infiniti ritocchi, perché il mio sguardo era avido di verità protese alla perfezione. La chiamavi pittura laboriosa, a volte noiosa…. Ma se non fosse stata noiosa non sarebbe stata divertente!

Impietoso con me stesso…sempre?

Forse era già insita nella mia vita di giovinetto, la sfida di immortalare con sguardo impeccabile la realtà. La visione doveva trasmigrare nell’eterno. E oggi mi chiedo se questa suggestiva idea, si sia provvidenzialmente insediata già nell’età feconda degl’anni giovanili germinando il suo seme, per sconfiggere negli anni a venire la mia paura della morte e quel dolore che s’avventa ancora nei miei ricordi, come la tormentata perdita della mia adorata madre. Sai….mi chiedo se tutto sommato sono stato meno coraggioso di quanto sperassi.

Ho sempre pensato che l’arte sia il dominio sul dolore attraverso la bellezza…

Ma ora? Oggi? Dopo?

Quale bellezza potranno cogliere i miei occhi? Da quale differente condizione di luce potrò ricostruire la mia vita?

Esco….esco lo stesso, entro nella mia abituale passeggiata quotidiana….

Mi sostengono le mie mani, diventate i miei occhi.

Per sempre,

Degas

la passeggiata

Da Erik Satie, Gymnopedie n.1

Lo  sguardo architetto di Edgar Degas

la mendicante

Fin dagli anni giovanili Degas è stato un artista solitario, totalmente assorbito dalla sua arte, sua unica compagna, a scapito delle relazioni umane e degli affetti. Tale inclinazione lo condusse nell’età matura, a chiedere il perdono dei pochi amici che avevano colto sotto il carattere duro e scontroso la grandezza dell’artista integro, incorruttibile, mai disposto a sottomettere la sua arte alla moda del momento. Ed è proprio il poeta Paul Valéry, amico dell’artista, che dedica al pittore un saggio che intitola “Degas danza e disegno”, che ha il merito di svelare l’intimità di Degas.

E’ sempre Valéry che racconta come il padre di Degas, Auguste de Degas, dopo una prima resistenza alla decisione del figlio di dedicarsi alla pittura, ne asseconda la volontà, intravedendo in Edgar l’immenso talento. Egli avrà cura di indirizzare il figlio a quella profonda meditazione sui maestri della tradizione italiana che conosceva e amava. “Hai osservato bene gli adorabili maestri, te ne sei colmato lo spirito? E Giorgione l’hai bene analizzato nei suoi mirabili toni accompagnati da un così bel disegno di grande eleganza?” Sono le parole che tessono amabilmente i dialoghi, quegl’incanti poetici  tra il padre e il giovane figlio.

il padre

A dir poco commovente è la lettera che Auguste spedisce all’amato figlio, dopo aver ricevuto alcuni disegni preparatori del ritratto della famiglia Bellelli. “Hai fatto un passo immenso nell’arte! Il tuo disegno è forte e il tuo colore è giusto. Lavora tranquillamente, continua su questa strada, e stai certo che farai grandi cose. Hai un bel destino davanti a te, non scoraggiarti, non tormentare la tua anima.”

Giunto in Italia nel 1856,  Degas può finalmente contemplare le opere di Giotto. Si entusiasma talmente tanto per gli affreschi di Giotto che si rifiuta di copiarli per poter mantenere intatta nella memoria l’emozione ricevuta. Nel 1860 il giovane Degas ha eseguito più di settecento copie, soprattutto di opere del primo Rinascimento italiano e del classicismo francese. Lo sguardo si rivolge tutto ai movimenti, agli arabeschi che richiamano la sua attenzione. Lo sguardo architetto del giovane Degas isola figure separandole dall’intero contesto e, studiandone gli atteggiamenti del corpo e dell’espressione, si crea un archivio di forme al quale ricorrerà ogni volta ne avrà bisogno. Già nel 1853, a Parigi, si è iscritto come copista al Louvre. Qui ha luogo la sua formazione artistica nel modo che egli stesso ha scelto, secondo la sua massima:   “Bisogna copiare e ricopiare continuamente i grandi maestri, perché tutta quella gente, quei maestri sentivano la vita e non la rinnegavano”

Dalle parole scritte all’amico Moreau si comprendono le sue convinzioni sulla complessa e accurata formazione di un pittore: “Non è forse vero, mio caro amico, che c’è la possibilità di creare luce, bellezza, sentimento, disegno, con un grande amore per quel che si fa? Con la voglia d’imparare e una profonda convinzione dell’eccellenza della pittura?”

Lo sguardo meraviglioso di Degas, fin da subito, è in grado di penetrare l’ampia gamma di possibilità espressive insite nel ritratto. In una lettera all’amico Paul Valéry, Degas registra le sue annotazioni mentre ritrae:

“Caro Valéry, mentre ritraggo persone in pose tipiche, familiari, il mio occhio, le mie mani, si preoccupano di rendere nel loro viso la medesima espressione dei corpi. Perciò se è il viso che caratterizza una cara persona, farla ridere. Ci sono ovviamente sentimenti che non si possono rendere per decenza, non essendo i ritratti destinati solo a noi pittori! Quante fini sfumature da rendere!”

la toletta

 

Attraverso il ritratto, l’occhio fotografo di Degas è in grado di scandagliare le qualità luminose dei colori, l’architettura raffinata delle linee, la gestualità dei corpi,  per trovare la chiave misteriosa e poter accedere alla vita quotidiana, ai pensieri profondi vissuti da uomini e donne che l’artista fissa per sempre nei suoi ritratti. Ma questa sua straordinaria capacità di rappresentare la realtà umana, non è esente da critiche sarcastiche. “E’ un povero deviato oftalmico! Un lezioso voyeur” grida qualche emerito studioso alla vista dei quadri di Degas che raccontano giovani donne nude nel momento della toeletta. Donne riprese in una quotidianità fino allora mai rappresentata. Ma nessun critico serio poteva certo tralasciare l’abilità predatrice di quell’occhio in grado di scovare ogni minuziosissimo dettaglio visivo, di isolare ogni pigmento coloristico, e infine di predare in pochissimi istanti l’ambita preda: quel mutamento quasi impercettibile della luce, la leggerissima sfumatura di un arazzo visivo, trama di forme nell’alchimia dei corpi femminili. Accalappiata la preda, l’occhio si trasforma rapidamente in un occhio impietoso volto a denudare le miserie del corpo umano, a dissacrare quel corpo femminile che la pittura fino allora aveva idealizzato. Non più quindi carne piatta e liscia, sempre nuda delle Dee, ma carne svestita, reale, ripresa nel rituale di abitudini intime. Donne che Degas racconta all’amico Valéry: “Le mie figure femminili sono degli esseri umani semplici, ma sinceri; si limitano ad accudire il loro corpo. Anche la pelle umana vive di una propria vita espressiva! Mi chiedi perché non mi sono mai sposato? Ecco! Ho sempre avuto paura che mia moglie potesse vedere uno dei miei quadri e dire : “Mm…carino..” una cosa è l’amore, un’altra è la pittura. E abbiamo soltanto un cuore.”

 

Ma quell’occhio fotografo, nell’ultimo decennio della vita di di Degas, ha un declino inesorabile.

I disturbi alla vista che lo avevano preoccupato fin dalla gioventù si aggravano tanto da far spegnere lentamente i suoi occhi. Nonostante l’avverso destino, non è raro trovare ancora Degas, ombroso e solitario, vagare per la città in cerca di situazioni ancora da osservare, da scoprire e da trasformare in soggetti per nuovi quadri.

Negl’ultimi anni della sua vita quegli occhi non possono più nulla ma le sue mani cercano ancora forme….

Le sue mani diventano i suoi occhi, intente a modellare fino alla fine l’essenza della vita.

creo finchè vivo

Colto da un aneurisma cerebrale, Degas muore il 27 settembre 1917 e viene sepolto nella tomba di famiglia nel cimitero di Montmartre. Secondo il suo stesso volere, davanti alla tomba, viene pronunciata soltanto la seguente frase: “Amò molto il disegno”

nudo

Ps: vi chiedo di scusare la mia innata voglia di travestirmi…

Perché, dopo essermi seriamente documentata, ho voluto migrare in un quadro di Degas, e raccontare con la mia scrittura il rapporto con la sua unica compagna di vita: l’arte…

testimonianza profonda del suo amore per questo meraviglioso viaggio.

Questo post, questa mia lettera scritta con la voce di Degas, è dedicata a mio figlio Gianluca, a quel suo “Concerto al buio”, evento organizzato nell’ambito del Progetto Lions Kairos con lo scopo di migliorare l’integrazione sociale delle persone che per timori o pregiudizi troppo spesso sono considerate “diverse”. Il concerto, svolto completamente al buio, ha avuto come obiettivo quello di far  vivere ai presenti la ricchezza del suono del pianoforte senza l’ausilio della vista, proprio come solo i non vedenti riescono a fare.

A mio figlio, il mio inestimabile maestro

A presto

Adriana Pitacco

 

 

Ciao, ti presento te stesso!

guardando

 Persiste il trend di crescita per l’uso di antidepressivi e ansiolitici in Italia; in aumento il mercato della “falsa felicità”

Striature grigiastre solcano i muri, la polvere  densa si è annidata in questo spazio che qualcuno  amorevolmente definisce “Casa Serena”, nei lunghi giorni destinati al tempo dell’ozio. Qualche bravo infermiere ti sta ricordando che essere qui è un onore,  perché finalmente consacrerai la tua vecchiaia alla fase contemplativa della vita, senza comunque dimenticare la provvista giornaliera di medicine che scandiscono inflessibilmente lo scorrere del tempo.

Sei adocchiato continuamente dal sorvegliante di turno, pronto a dirigere il traffico dei tuoi pensieri, a dirottare le tue parole in un ordine logico, consequenziale agli eventi del giorno. Poi, con ossequiosa calma, ti invita ad addentrarti verso la ronda giornaliera.

Qualche passo ancora…si rinnova l’ora delle visite.

 E finalmente oggi ti ritrovo…

Ma non ho bisogno di presentarti me stessa, anche se tanti anni ci separano dall’ultimo incontro. Avidi i nostri sguardi sanno già ricordare…

Ma ora dimmi… da dove vuoi che racconti quel tuo modo insuperabile di spiazzare ogni pregiudizio? Ho capito, mi stai dicendo che prima di essere un medico sei stato un Uomo e che solo grazie ai tuoi pazienti ti sei presentato al mondo. E così, oggi, testardo fino alla fine, vuoi presentarti come abile narratore, vuoi spodestarmi per un po’.

Ti ascolto volentieri, toglimi pure lo scettro della scrittura. Sicuramente sarai ancora abile a smascherare l’ignobile ricettario fornito dall’avveduta società del “buon costume della medicina ufficiale”, come li chiamavi tu, sulle miracolose cure per la felicità. L’ultima offerta è a dir poco commovente:  “Ti aiutiamo a conoscere te stesso, a presentarti al mondo e a conquistare la felicità nel giro di due settimane, ad un prezzo super conveniente”.

Ora racconta, perché voglio ritornare da dove siamo partiti, dal mondo delle idee.

Quel mondo che hai presentato come un figlio in quella clinica prestigiosa dove eri stato invitato come relatore sul tema “Psicopatologia delle depressioni-casi di guarigioni quasi impossibili”. L’avevi deciso fin dall’inizio che non sarebbe stata la solita relazione costruita per gli addetti ai lavori. Sarebbe diventata, man mano, una lunga conversazione, in una sala gremita non da medici, ma soprattutto da uomini e donne alla ricerca di conoscere sé stessi.

Londra 1980

“Non vi parlerò di nessun caso di depressione impossibile da guarire! Affermare che vi sono casi impossibili, la cui guarigione sarebbe a dir poco eccezionale, sarebbe come affermare che nell’Uomo esistano solo la ricerca del piacere e della felicità senza il dolore, senza che piacere e dolore si amalgamino tra loro, l’uno nell’altro. Siamo sicuri di conoscerci, ci paragoniamo ad alberi che aprono i rami sempre più su, alla ricerca di luce, sempre più in alto! Poi giunge un momento in cui ci chiediamo se quell’individuo che cammina sia veramente il nostro Io, quell’Io che abbiamo da sempre conosciuto, o un altro che guardiamo e non riconosciamo. L’albero così si piega, per ritrovare la sua iniziale posizione, ma finisce per sradicarsi impietosamente. E allora intuiamo di aver avuto un unico difetto: quello di esserci sempre rifiutati di procedere al di là delle apparenze. Fino allora siamo rimasti dentro, come schiavi, in una caverna, costretti a guardare sul fondo di essa le ombre della nostra esistenza. Dentro scambiamo queste ombre per realtà perché non abbiamo mai voluto conoscere, andare oltre. Schiavi di noi stessi, schiavi di una realtà ingannevole! Ma finalmente decidiamo di uscire dalla caverna. Incominciando ad abituarci alla luce forte del sole, iniziamo gradualmente a scorgere le idee…non più realtà apparenti! Come schiavi finalmente liberi, proviamo ad esplorare il mondo che ci circonda, ma ci prende l’angoscia di non farcela; ci chiediamo se sia opportuno ritornare dentro la caverna e incatenarci nuovamente. La vita non è un albero che sale, ma linfa che scorre! Sempre più giù, fino alle viscere d’inferno e paradiso.

Scendiamo….è una discesa che ci travolge! E’ una guida dell’anima verso il mondo dell’essere. “L’idea della nostra reale esistenza alla quale l’anima partecipa”,così direbbe Platone.

E questa è la vita: Dolore e Amore assieme, l’uno dentro l’altro, in questo viaggio finalmente libero in cui ogni uomo e ogni donna si presentano al mondo.”

 

E così continui a parlare con quello che chiamavo “il linguaggio degli Dei”.

Io ho ancora il privilegio di amare i tuoi sguardi struggenti, divenuti parole nel paesaggio della tua memoria. Perché nessuna malattia, nemmeno quella acida vecchia dal nome Alzheimer che ti hanno affibbiato addosso, violerà il ricordo della tua presentazione.

Perché quando io parlerò di te…

Ti ricorderò ancora così!

Per sempre…

 

Dalla raccolta “Ossi di seppia” di Eugenio Montale

 

Portami il girasole ch’io lo trapianti

nel mio terreno bruciato dal salino

e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti

del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,

si esauriscono i corpi in un fluire di tinte: queste in musiche.

Svanire è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce

dove sorgono bionde trasparenze

e vapora la vita quale essenza;

portami il girasole impazzito di luce.

 

Mi conosco perché ti amo: Salvador Dalì e Gala

 

il ritratto

 

“Ogni mattina, al risveglio, provo un piacere supremo: quello di essere me stesso, quello di essere Salvador Dalì. A sei anni volevo diventare cuoco, a sette anni Napoleone; da allora la mia ambizione non ha smesso di crescere: non voglio più essere che Salvador Dalì e nient’altro!”

Ma la vera presentazione di sé stesso al mondo, Dalì, la compie con la prova indiscutibile dell’amore: nel 1929 il grande artista scopre in Gala il grande amore della sua vita.

la preghiera

Questo incontro storico avviene all’insegna della follia. Innanzitutto Dalì si trova in uno stato di esaltazione per cui, ogni volta che vuole parlare a Gala, viene preso da un riso irrefrenabile. Ogni volta che lei si allontana non fa in tempo a voltargli la schiena che Dalì si contorce dal ridere fino quasi a cadere a terra. E’ difficile quindi per Dalì riuscire a dichiarare il suo amore tra scoppi di riso nervoso. Non è cosa facile perché, oltre ad essere affascinante, Helena Devulina Diakanoff, figlia di un funzionario di Mosca, da tutti soprannominata Gala, manifesta una sicurezza che non manca d’impressionare il giovane Salvador. Resta il fatto che all’epoca Dalì aveva avuto con le donne solo delle esperienze limitate; sosterrà sempre che era ancora vergine quando ha conosciuto Gala.

 “Anche le vittorie hanno il viso incupito dal dolore. Non bisogna stuzzicarle” racconta Dalì.  “Ciononostante stavo per farlo, per serrarle la vita, quando la mano di Gala prese la mia. Era il momento di ridere, e risi con un nervosismo tanto più violento in quanto la cosa doveva risultare più fastidiosa per lei in quella particolare circostanza. Ma, invece di sentirsi ferita dal mio riso, Gala se ne inorgoglì. Con uno sforzo sovrumano, mi strinse la mano ancora più forte. E grazie alla sua intuizione medianica aveva colto il senso preciso del mio riso, così inspiegabile per gli altri. Il mio riso non era allegro come quello della gente normale, non era scetticismo o frivolezza, ma fanatismo, cataclisma, abisso e terrore. E quello che le avevo appena fatto sentire, che avevo gettato ai suoi piedi, era il riso più catastrofico, più terribile di tutti.  “Tesoro” disse ” Non ci lasceremo più”

Sempre durante uno dei loro primi incontri, Dalì chiede a Gala : “Cosa vuole che le faccia?”e Gala, con il volto trasformato, divenuto duro e tirannico, risponde:  “Voglio che mi faccia schiattare!”   “E se la gettassi dalla cima della cattedrale di Toledo?” S’interroga Dalì.  Sempre il grande artista racconta: “Gala mi distolse dal mio crimine e mi guarì con il suo amore. Grazie! Voglio amarti! Ti sposerò… questa fu la mia risposta. E i miei sintomi isterici scomparvero gli uni dopo gli altri come per incanto.   Ridivenni padrone del mio sorriso, del mio riso, dei miei gesti. Lei mi guarì grazie alla potenza indomabile e insondabile del suo amore. La sua profondità di pensiero e la destrezza pratica di questo amore surclassarono i più ambiziosi metodi psicanalitici.  E finalmente una nuova salute mi sbocciò nella testa come una rosa”

 

gala e la bellezza

 

E così, come racconta Dalì, ci presentiamo al mondo con la forza dell’amore: l’unico vero specchio della nostra esistenza!

E finalmente…

Ciao! Ti presento te stesso…

o me stesso!

i volti di gala

Questo post è dedicato a tutti coloro che hanno avuto il coraggio di uscire dalla caverna, finalmente liberi, di essersi presentati al mondo con la ricchezza inestimabile delle proprie idee, della propria diversità, vivendo queste parole:
“L’ Uomo è artefice del proprio destino”.
A presto
Adriana Pitacco

titoli dei quadri di Salvador Dalì: Giovane donna in piedi alla finestra(1925)- Autoritratto (1921)-  Studio per la Madonna di Port Lligat (1950) Leda atomica(1949) Tre visi di Gala appaiono su delle rocce

guardando