LUCI

l'infinito

“Se potessi esprimerlo con le parole, non ci sarebbe nessuna ragione per dipingerlo”

Queste erano le mie uniche parole quando qualche emerito critico s’ostinava con la più stupida richiesta che si possa fare ad un pittore: “Mi dica Maestro, mi racconti l’evoluzione, la trama narrativa del suo quadro…” Evoluzione, trama narrativa, ispirazione…con queste stupide parole era sicuro di poter adulare il “Maestro” e di rapire per primo qualche segreto per poi sbatterlo su qualche suo articolo. Povero illuso, il Maestro non si è mai ossequiato di fronte agli “Alti riconoscimenti”, né ha mai piegato la sua valenza pittorica ad essi. Nessuno può essere così banalmente idiota nel richiedere l’uso delle parole per la comprensione di un quadro! Il quadro e le voci altrui? Il quadro e la sua inconfondibile voce! E oggi, Jo, ho tolto dalla galleria della Vita, un quadro che ora più di ogni altro ci appartiene. Ma lo scoprirai più avanti…non aver fretta, perché lo riconoscerai alla fine di questo mio racconto.

Oggi sembra una domenica qualunque…

la domenica

C’è chi passeggia tranquillamente sulla spiaggia, chi si diverte a riempire il tempo con qualche nuova avventura amorosa, ma questa domenica qualunque, cara Jo, si sta trasformando nella mia “solitaria domenica”, dove il senso di una prospettiva della vita volta verso la fine mi conduce a dirottare il mio sguardo, le mie parole, nell’unico quadro che non ho ancora completato: il quadro della mia stessa vita.

Questo quadro ho bisogno ancora di viverlo, e sono loro che implorano ancora questo.

Loro…i miei quadri!

Ogni quadro è rimasto dentro al suo vagone speciale, mentre il treno della vita mi concede ancora del tempo per raccontare, senza pudore, l’attesa della fine. Ti stupisci? Ti sta cogliendo un fremito di stupore? Non preoccuparti, capita anche a chi è sempre stato poco convenevole con le parole, a chi ha sempre rifiutato qualsiasi tipo di racconto sulla propria vita, lasciando solo parlare i suoi quadri. Ti ricordi? Qualche benpensante supponeva che questa mia ritrosia fosse dovuta ad un carattere scontroso, difficile da commisurare con i rapporti umani. Forse, mia cara, questo tuo solitario vecchio, sta vivendo la paura che i suoi quadri possano rimanere senza la loro inconfondibile voce. E allora, vecchio e ostinato padre, tento di dissuaderli dal nascondersi, dall’essere intimoriti da qualche dubbio, forse anche mio, e rovisto parole dal fertile terreno della mia memoria (ai pittori è concesso ancora questo dono), per conferire ad ogni quadro una voce speciale, una voce senza fine, una voce al di là della mia morte.

Ho bisogno di parole, cara Jo,

di parole…

La linea di confine di questo mio racconto verrà data dall’intima luce che c’è, che esiste a cape Cod.

Quella luce che amo, luce che tra un po’ non mi donerà più le sue inestimabili grazie…

Tu ascoltami, non lasciarmi solo…

il faro

Loro, i quadri, vennero al mondo con il mio stesso patrimonio genetico perché, come scrissi a Charles, “Il mio obiettivo è sempre stato quello di usare la natura per fissare sulla tela le mie reazioni più intime all’oggetto, così come esso appare nel momento in cui lo amo di più, quando i fatti corrispondono ai miei interessi e alle immagini che mi sono creato in precedenza.” La pittura diventava una meravigliosa sintesi della mia esperienza interiore, quella più complessa e vera.

Mi chiedi se i miei quadri siano un prolungamento della mia vita? Lascio a te, dopo il mio racconto, la risposta…

Provo a sforzarmi, tentando di riportare questa mia ostinata memoria nel punto esatto dove tutto ebbe inizio, il momento preciso dove l’arte iniziò quel moto perpetuo attorno alla mia vita.

Ma vano diventa questo tentativo, impossibile.

Con il passar degli anni, anche tu sei riuscita a scoprire quando trovavo il tema su cui concentravo la mia assoluta attenzione. La forza meravigliosa della pittura sentivo che si realizzava con lo studio della luce. Osservavo il cielo con meraviglia, amavo il sole calante dei pomeriggi estivi che proiettava ombre e luci in forme nette e lunghe. Mai il mio sguardo si disincantava di fronte al cielo, perché mai ho tradito lo sguardo magico della meraviglia, lo sguardo magico della mia infanzia. Complice la mia fertile solitudine, durante gli anni affrescati dal gioco e dal sorriso, mi divertivo a trasformare le nuvole in cavalli galoppanti, il cielo in una lussureggiante prateria, e la luce diventava una misteriosa chiave per entrare in territori finora inesplorati.

Conquistatore della luce, all’arrembaggio di nuove terre.

Così nacqui…

Così rimasi…

Anche se con il tempo, il passar degl’anni, iniziai a studiare meticolosamente, quasi al pari di uno scienziato, le traiettorie dell’illuminazione artificiale, e mi interessai sempre di più a uomini e donne immersi nell’ombra e nella luce. E nell’ombra e nella luce, ancora oggi, sebbene vecchio, ritorno in quel gioco solitario della mia infanzia, quando scoprivo, mentre s’adagiava sul volto stanco di mio padre, lo scorrere implacabile del tempo, e in quella luce comprendevo, già allora, la cronaca faticosa della sua giornata. Ogni volta che si rinnovava la scoperta sui volti delle persone amate, sentivo che il tempo si sospendeva dentro ad un inquieto senso di fragilità per ciò che sarei divenuto, per ciò che sarebbe rimasto di me.

vecchi

Da allora la luce diventò la mia inseparabile compagna. Mi chiedo se, già in quei momenti, volessi individuare nel passaggio della luce, il suo istante immutabile, fissare l’istante eterno, quell’attimo della luce così apparentemente contradditorio: l’istante eterno e il suo contrario. Quell’istante che specchiava se stesso nella sua fugacità, perché in realtà viviamo mentre una parte di noi se ne va, per sempre.

Arrivato all’età fertile delle domande, non mi interessai a dare qualche spiegazione al mio processo creativo. Un giorno, alla richiesta di un benemerito critico su cosa intendessi esprimere con l’arte, pronunciai queste parole: “La vera arte è la rappresentazione di me stesso!” Lo dissi di getto, senza pensarci su, forse senza nessi logici. Me stesso e la solitudine? Quel forte senso di fragilità, condizione della mia vita? Io, Hopper, ho sempre voluto fare me stesso! E a chi mi chiedeva se attraverso  la pittura intendessi comunicare con il pubblico, rispondevo che dipingevo solo per me stesso. Vi sono due fasi distinte nella vita di un pittore: la prima fase è la creazione di ogni particolare del quadro e in questa fase non mi sono mai interessato a comprendere perché dipingo, né ho mai sublimato qualche mio desiderio, o la vana paura della morte, con la pittura. Ho dipinto e basta, senza tanti perché, senza nessun dubbio. Nella seconda fase, quando il quadro è giunto a compimento, vuoi che il quadro comunichi con il pubblico. Il quadro finalmente ha una sua inconfondibile voce!

E solo oggi, ormai vecchio, senza avermi mai posto alcuna domanda sul perché ho concesso alla pittura il patrimonio esclusivo della mia esistenza, questa luce è pronta a svelarmi il motivo della mia arte: dipingevo per scoprire il canto malinconico della vita di ogni giorno, vita ripresa nell’intima quotidianità, e man mano che riprendevo ogni implacabile proiezione della luce su ogni minimo dettaglio visivo, la regia oculata dell’occhio diventava sempre più prodigiosa nel rapire la malinconia di ogni individuo, la sua fragilità, lo scorrere del tempo verso l’annullamento della vita, perché anche all’interno di una stanza dismessa l’arte pittorica ci svela qualche traccia atta a raccontare l’universale fragilità di questa nostra esistenza.

Qualcuno ha definito i miei quadri “icone senza tempo”, forse perché il tempo si annulla nella malinconia che ognuno di noi porta già con la sua nascita, quella malinconia che viveva dentro ai miei colori, alle linee, alla luce che catturavo con orgoglio. Comunque non ho mai voluto essere l’unico arbitro dei miei quadri, non ho mai preteso di indirizzare lo sguardo dello spettatore verso qualche fine implicito nella mia pittura. Non esiste un’unica via d’accesso per la comprensione di un quadro: ognuno scelga la propria. E non volli mai nei miei dipinti creare una sorta di complicità con il luogo della mia narrazione visiva. Quel luogo, già intimo di per sé, mi avrebbe fatto scoprire le sue geometrie, i suoi rettangoli di luce che investono le pareti, le sue zone d’ombra e le linee precise di corpi dal profilo solitario. La trama di un possibile racconto la creava la luce, spettava poi ad ogni spettatore tramare nuove storie.

La vera invenzione nasce dalla forza  dell’immaginazione.

Sai, solo oggi sono giunto alla conclusione che i miei quadri portano con sé un vago senso di morte. Mentre dipingevo sentivo che stavo distruggendo tutte le mie percezioni, distrutte attraverso la loro trasformazione sulla tela. Distruzione necessaria, inevitabile, perché i quadri potessero avere la loro inconfondibile voce. E vivevo con loro l’ intimità di un padre con i figli, l’intimità che nasce anche dalla forza dell’immaginazione che ogni padre possiede quando immagina il futuro del proprio figlio. Volevo che ognuno di loro venisse accolto con la sua inconfondibile voce, il suo temperamento, il desiderio di vivere senza subire pregiudizi. Ma questo, tu lo sai, arrivò tardi, poiché fino al 1924 i miei quadri vissero in solitudine, in completa solitudine. Gli sguardi dei miei quadri e di un possibile acquirente, stranamente, non si incontravano. Troppo diversi?

Ti ricordi, quando  qualcuno li definiva “Metafore del silenzio”? Ma il silenzio parla, racconta senza nessun pudore la più profonda verità.

C’è un unico motivo che permane in tutta la nostra vita, segno distintivo d’ogni esistenza. Solo oggi oso definire questo segno distintivo “la voce indistruttibile di ogni uomo e di ogni donna”.

Questa voce è il mistero della nostra solitudine.

penso

Non preoccuparti, non sto farneticando, possiedo ancora non solo l’arte doviziosa della pittura, ma anche l’arte del ragionamento, della profonda comprensione. Dico profonda perché a noi vecchi, mentre i movimenti diventano sempre più languidi, la comprensione della vita, o ancor meglio la vera intuizione, si trasforma in un’intuizione profonda, terribilmente vera, senza maschere e tradimenti. Tu la chiameresti un’intuizione nobile, che spetta di diritto a chi da sempre ha contemplato, con la propria arte, la vita.

Questa voce, il mistero della nostra solitudine, ci appartiene da sempre: nasciamo nel ritmo della nostra solitudine…morirò in quella sorte finale riservata ad ogni individuo. Ancora in un’assoluta solitudine, ma questa volta non più feconda, non più fertile. Senza più luce, senza poter cogliere il movimento rapido della luce su un volto, il suo tremolio sulle pareti di una stanza, senza più afferrare da quella luce il chiacchierio delle ore, l’attesa della nuova stagione.

Ma ora entra Jo, posati sulla mia tela. Questa tela possiede il potere magico di aprire il sipario della vita…

Lo so, sei stanca di acrobazie, di ulteriori imprevisti…

Puoi salire su solo lentamente, perché la vecchiaia non ci concede molta grazia nei movimenti. Non preoccuparti, ti sto tendendo la mano…abbiamo dipinto la nostra vita assieme, non possiamo perderci  ora. Annotavi sul nostro diario tutti i particolari dei miei dipinti e in quel diario scrivevamo come stavano crescendo, quali altre conquiste avremmo fatto assieme.

Poi, assieme a loro, siamo sempre andati dove c’era il sole.

Anche a loro, i quadri, ho sempre fatto rivolgere lo sguardo verso il sole. Ma quando vivevamo un’inquieta malinconia, i personaggi dei miei, dei nostri quadri, li rappresentavo mentre cercavano il sole.

Lo cercavano, Jo, lo cercavano…

In attesa…

Su, sali…non c’è la luce naturale del sole, ma si stanno accendendo le luci di un antico sipario.

Siamo due commedianti nell’atto finale, nell’ultimo saluto al nostro pubblico.

Sssh…non versare nessuna lacrima…la vita è una grande commedia umana e l’arte ha il compito di rappresentarla.

Ti ricordi durante il nostro primo incontro, la nostra amata poesia di Verlaine? Io iniziai dedicandoti le prime parole: ” Un vasto e tenero acquietamento sembra discendere dal firmamento” e, senza esitare un attimo, tu continuasti: “Che l’astro illumina. E’ l’ora squisita”.

Era l’ora del nostro primo incontro. L’ora nella quale i nostri sguardi svelavano l’incanto dell’innamoramento. In quel momento sentivo che stavo trovando la luce dell’attimo eterno dentro al tuo dolcissimo sguardo.

Oh Jo! Ti sei fatta tradire dall’emozione dei ricordi? Non piangere, il pubblico ci sta attendendo, ma dobbiamo sforzarci, a tutti i costi, perché nessuno dei presenti possa comprendere che il nostro è l’ultimo saluto, in questo atto finale.

Si sta spegnendo la luce, qui a Cape Cod.

Una luce flebile mi lascia il suo ultimo canto…Non ci sono più parole per questo mio racconto.

E’ ora di entrare in questo quadro dal titolo così chiaro e preciso: “I commedianti”.

Ancora per qualche attimo, questa esile luce ti concede il dono di carpire l’ultimo segreto…

Osserva il pubblico in sala, Jo…

Sono presenti tutti i quadri.

Ti chiedi ancora se i miei quadri siano il prolungamento di me stesso?

“L’opera è l’uomo. Non nasce mai dal nulla”

Non piangere, Jo…lo spettacolo andrà avanti con le loro Voci…

Per sempre

 

 

Hopper e la verità delle parole

autoritratto

Questo grande artista ha concesso a noi, semplici viandanti, di poter cogliere le profonde verità delle sue parole.

Ognuno scelga la propria

In una lettera a Charles Sawyer, direttore della Addison Gallery American Art, Hopper scrive: “Per me, figura, colore e forma, sono solo mezzi per raggiungere il fine, sono gli attrezzi con i quali lavoro, e non mi interessano in quanto tali. Mi sento attratto soprattutto dal vasto campo dell’esperienza e delle sensazioni. Il mio obiettivo nella pittura è sempre usare  la natura come mezzo per provare a fissare sulla tela le mie reazioni più intime all’oggetto, così come esso appare nel momento in cui lo amo di più. Perché poi io scelga determinati oggetti piuttosto che altri, non lo so neanche io con precisione, ma credo che sia perché rappresentano il modo migliore per arrivare a una sintesi della mia esperienza interiore.”

“L’ arte che racchiude una verità fondamentale è sempre moderna. Per questo Giotto è moderno come Cezanne”

“Da bambino sentivo che la luce della parete alta di una casa era diversa da quella della parete più bassa. Quella in alto ha più gioia!”

“L’opera è l’uomo. Ogni stato d’animo, per quanto banale, merita un’interpretazione”

Hopper mai dimentica nella sua arte la frase di Goethe “L’inizio e la fine di ogni attività artistica è la riproduzione del mondo attorno a me attraverso il mondo in me”

Di Goethe, ama particolarmente la poesia “La quiete”

In tutte le cime è quiete

in tutte le valli non un suono.

Tacciono gli uccelli del bosco

Aspetta presto riposerai

Anche tu

Ma la poesia più amata da Hopper è la poesia rivelatrice di quel grande amore che si svelò già al primo incontro con Josephine: la poesia di Verlaine “l’ora squisita”

Un vasto e tenero acquietamento sembra discendere dal firmamento

Che l’astro illumina

E’ l’ora squisita.

Anche noi viandanti di questo inestimabile viaggio rappresentato dalla vita, riusciamo a vivere “L’ora squisita”, quell’attimo eterno attraverso i suoi quadri.

Perché “l’opera è l’uomo”

Un uomo vero, libero, che pone nel suo viaggio quella frase battagliera, tratta dal diario di Delacroix, che Hopper mise come fondamento nella sua lotta contro false teorie, deliranti opportunismi di mercato:

“Gli uomini della nostra professione negano ai fabbricanti di teorie il diritto di muoversi impunemente nel nostro campo e a nostre spese”

 

Vi chiedo di perdonarmi se, dopo essermi seriamente documentata, ho voluto aprire il mio sipario per vivere quel palcoscenico che tra un po’ non mi concederà più la presenza di volti amati profondamente. E così, per continuare ad osservare il cielo con meraviglia, ad amare la luce che si adagia sui loro volti stanchi, consapevoli dello scorrere implacabile del tempo,

per non tradire lo sguardo malinconico della vecchiaia e poter carpirne il dolce segreto, 

ho preso per mano le mie parole e le ho condotte nell’ultimo lascito di Hopper…

i commedianti

Quel quadro “I commedianti”, con il quale Hopper, giunto negli ultimi anni della sua vita, dipinge se stesso e l’amata moglie nelle vesti di due attori che alla fine dell’ultimo atto si congedano per sempre dal loro pubblico.

Finalmente, nel gioco della finzione del mio scritto, nella trama tessuta dalla fantasia del racconto, so che vivrò per sempre quel dolce segreto,

anche quando arriverà la “metafora del silenzio”.

Questo mio scritto è dedicato allo sguardo profondo e vero della vecchiaia

A presto

Adriana Pitacco

quadri postati: camere vicino al mare(1951) – Domenica(1926)- Lighthouse Hill(1927)-Hotel accanto alla ferrovia(1952)- Sole mattutino(1952)- Due commedianti(1965)- Autoritratto(1903-1906)

Brano musicale: dal secondo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov, il secondo movimento, suonato da lui stesso