Lotta come se non ci fosse un domani
Incidenti sul lavoro in Italia: circa 30.000 all’anno.
Incidenti con danni permanenti/morte nei primi mesi del 2017: 85.
“In data odierna le comunichiamo che le sue rimostranze nei nostri confronti, per non aver ottemperato alla vigente legislatura inerente la sicurezza del lavoratore, risultano infondate. Inoltre la documentazione da lei inoltrataci risulta inattendibile e incompleta”.
Leggo rapidamente, cercando di nascondere la rabbia per l’ennesima burla dell’amorevole ditta che si rincresce così tanto per non aver ricevuto ancora la necessaria documentazione medica. Sono genitori avveduti, attenti ai loro lavoratori, quindi non si accontentano di una semplice cartella clinica nella quale l’ospedale ha documentato la seria operazione che hai subito, il difficilissimo piano di recupero riabilitativo che ti hanno sottoposto…
Desiderano conoscere più dettagli possibili. Siamo proprio fortunati perché sono dei veri genitori.
Tu ascolti in silenzio…
Ma è il tuo sguardo che rivela l’essenza di questi mesi, l’unica verità.
“Lotta come se non ci fosse un domani” sono le parole che ripeti a ogni risveglio.
D’altra parte il combattimento è uno degli sport più antichi dell’uomo e tu sei un vero combattente.
Sorrido e penso che è uno sport che qualcuno non vuole nemmeno conoscere, o nel quale si arrende al primo insuccesso, alla prima delusione. Ma la tua è quella che io chiamo una “nobile arte”, che richiede ai suoi praticanti una notevole dose di coraggio, forza e volontà nello sconfiggere l’avversario.
Forse il termine avversario devo volgerlo al plurale.
Perché di avversari da sconfiggere ne hai parecchi: prima di tutto, in cima, c’è il tempo, che si addensa in minuti e ore, che si rivela inesorabilmente ad ogni controllo medico. Perché sotto, stampata alla fine del foglio diagnostico, ogni volta troviamo una scritta minuta, ma per noi preziosissima: “tra quindici giorni si ripetono raggi, controllo medico per la deambulazione e funzionalità della gamba. Si considera eventuale nuovo intervento chirurgico”. Ecco, il tempo qui è precisamente stabilito: quindici giorni. E in questi quindici giorni devi sconfiggere il tempo. Non devi lasciare che nessun minuto possa addentrarsi nella fitta vegetazione della malinconia e che nessun pensiero tortuoso si annidi dentro di te per sentenziare che non ce la farai, che hai esili speranze di guarigione.
Hai deciso che il tempo lo devi dominare, ma è compito arduo per ogni essere umano! L’hai paragonato ad un cavallo selvaggio e nei quindici giorni che ti rimangono hai deciso di imbrigliarlo e di addestrarlo assieme al tuo corpo, assieme a questa maledetta gamba, per recuperare l’istinto ancestrale del cammino, dell’allineare i piedi, del poter stare in equilibrio, eretto. Finalmente in piedi, trionfante per volgere il tuo sguardo anche dall’alto, superbamente maestoso, senza che venga imprigionato dalla lacerante posizione orizzontale a cui il tuo corpo è stato costretto per mesi.
Ma il tuo pensiero… mai! Lui non è mai stato costretto, mai si è rassegnato o piegato.
Nemmeno la tua rabbia. Rabbia che provi non certo contro le avversità della vita, la tua è una rabbia implacabile contro quella frase ipocrita scritta dalla “grande azienda”, dal famoso datore di lavoro. “Le chiediamo di non contattarci più, dal momento che, a causa della sua prolungata assenza dal lavoro, il contratto è stato reciso”.
Nessuna lettera dell’alfabeto è stata allineata per decifrare l’espressione “incidente sul lavoro”. C’è solo una serie di numeri accanto alla parola archiviazione. Per loro non hai più un nome, un cognome, sei stato marchiato per essere mandato al macello. Ormai sei carne da macellare, identità inutile.
Probabilmente, e questo oggi mi diverto a pensarlo, sei considerato una specie di untore, al pari di un personaggio manzoniano e, se non ti fermano in tempo, potresti cospargere i luoghi dell’azienda contagiando gli altri lavoratori con il morbo della giustizia. Morbo che rapidamente diffonderebbe nei lavoratori strani sintomi, quali: il diritto a tutelare la propria salute, a rivendicare un salario adeguato…insomma, ad affermare la dignità dell’uomo.
La voce gracchiante dell’ipocrisia fa parte di quell’infame esercito che abilmente hai deciso di sconfiggere.
E’ un combattimento a pugni nudi, senza tregua… Non c’è tempo!
L’accademia dove ti alleni, io la chiamo sorridendo “L’accademia della Vita”. L’hai inaugurata pronunciando queste parole: “L’uomo è artefice del proprio destino”.
Qualcuno potrebbe sicuramente chiederti: “Qual è il tuo codice di disciplina?”
Resistenza, incassare i colpi, il dolore, e considerare come unico arbitro la tua implacabile fiducia nella vita, perché quest’ultima ti offre decisamente, già all’inizio, punti di vantaggio.
E così oggi rinnoviamo la nostra visita al grande ospedale. Ormai sono mesi che il grande ospedale mi diverto a chiamarlo “Palazzo Ducale”, come il grande Palazzo Ducale di Venezia. Il motivo? Semplice! Un giorno scenderemo per l’ultima volta dalla Scala dei Giganti, la scala che collega il cortile alla loggia interna del primo piano e in quel luogo deputato alla solenne cerimonia dell’incoronazione ducale, noi celebreremo la nostra vittoria!
Entriamo, questa volta sei tu che mi porti con te
Sei tu che mi osservi teneramente mentre ti ascolto
Sei tu che, come un vero equilibrista, rimani incredibilmente fermo, deciso a vivere ogni attimo…
mentre cerco di fermare parole, trasformate in veri aquiloni…
Sono quelle del giovane medico:
“Lo so che non potrei dirlo, io uomo di scienza, ma i suoi progressi sembrano miracoli”
E così hai vinto l’ennesimo round.
Quale titolo hai vinto?
Il titolo della Vita!
E allora portami con te…
Io ti seguo…
del poeta Paul Eluard
“La grande luce”
Vieni, sali. Presto le piume più lievi, scafandro dell’aria, ti terranno alla nuca.
La terra reca appena il necessario e i tuoi uccelli di varietà tanto belle, sorriso. Là dove sei triste, come un’ombra dietro l’amore, il paesaggio copre ogni cosa.
Vieni presto, corri. E tu hai corpo più veloce dei pensieri, e nulla capisci? Nulla ti può oltre passare
La Vittoria nell’arte : Pierre Auguste Renoir
Gli ultimi tre decenni della vita di Renoir sono ottenebrati dall’amara sorte di una grave malattia contro la quale dovette duramente combattere.
Nell’estate del 1898 si recò spesso ad Essoyes, la città natale della moglie, ed è proprio durante il soggiorno ad Essoyes che comparvero i primi sintomi di una grave affezione reumatica, che lo costrinse a trascorrere l’inverno al sud, in Provenza.
Nell’ultimo periodo della sua vita, la grave artrite reumatica gli creava grandi difficoltà. Le sue ossa si deformavano, la sua carne si inaridiva. Nel 1904 pesava appena 48,5 kg e non riusciva quasi più a rimanere seduto. Dopo il 1910 non era neanche più in grado di muoversi con l’aiuto delle grucce e rimase costretto sulla sedia a rotelle. Le sue mani si erano contratte e somigliavano agli artigli di un uccello. Delle fasciature di garza erano necessarie per impedire che le unghie, crescendo, si conficcassero nella carne. Gli era ormai impossibile prendere in mano il pennello, che doveva essere incastrato tra le sue dita irrigidite. Egli continuava a dipingere in questo modo giorno dopo giorno, instancabilmente, quando gli acuti attacchi di dolore non lo costringevano a letto, dove un sostegno di fil di ferro proteggeva il suo corpo dal contatto con le lenzuola di lino. Di tanto in tanto rimaneva quasi completamente paralizzato. Si fece costruire un cavalletto sul quale poteva arrotolare la sua tela come un panno tessuto sul telaio; così poteva affrontare anche le opere di discrete dimensioni, benché fosse legato alla sedia a rotelle ed i movimenti del braccio gli consentissero di eseguire soltanto brevi, energiche pennellate. “Vedete” disse al commerciante Vollard che lo osservava guidare il pennello con i suoi artigli ricurvi “La mano non è affatto indispensabile per dipingere! Indispensabile è l’occhio e indispensabile è il cuore!”
In questo periodo Renoir diventò anche scultore; trovò delle mani che plasmassero la creta sotto la sua guida. Il giovane artista spagnolo Richard Guino si rivelò un sensibile assistente. Dopo aver accostato la sua sedia a rotelle, Renoir dirigeva i lavori con una bacchetta: “Togli qualcosa lì…di più…così! ” I due erano talmente affiatati che bastavano brevi cenni, piccole esclamazioni, per intendersi.
Mai e poi mai il vecchio Renoir lasciò che un’ombra di disperazione, di tedio, di dispiacere o di invidia affiorasse nella sua arte; desiderò solo che le opere create negli ultimi anni fossero un inno alla vita felice, un unico arcadico sorriso.
“Faccio ancora dei progressi”, disse pochi giorni prima della sua morte, e si racconta che l’ultima parola pronunciata dalle sue labbra il 3 dicembre 1919 si sia riferita alla disposizione di una natura morta che intendeva dipingere.
“Fiori…” fu l’ultima sua parola.
Questo post è dedicato al mio compagno, splendido padre dei miei figli
A presto
Adriana Pitacco