Principe al buio

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Troneggiava la luce del sole di mezzogiorno sulle pareti tappezzate dai titoli nobiliari, stemmi araldici che rigogliosi trasformavano la stanza in un insolito giardino di alberi genealogici. Su tutti balzava all’occhio una data, sapientemente decorata in oro: 18 luglio 1945. Date, numeri magici, che riconoscevano con sentenza del tribunale di Napoli il diritto a “sua altezza” di fregiarsi delle più altisonanti discendenze principesche.

“Vecchio, ma pur sempre un principe, doppiamente principe: Principe De Curtis e Principe del Teatro”, ripeté l’esile corpo racchiuso in un piccolo trono, una smilza poltrona. E con sagace pazienza quel minuscolo corpo addestrò abilmente le sue mani ad occuparsi del momento della vestizione: momento sacro, magico, che da sempre conferiva al principe, a “sua altezza”, quel tocco di assoluta eleganza. Giacca, pantaloni scuri, sul capo una piccola bombetta e supremo diventava il fasto della recitazione!

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Lo spettacolo tra un po’ sarebbe iniziato e oggi il principe avrebbe di nuovo trionfato! Anche se due occhiali neri ne usurpavano il volto, sbeffeggiandolo, depredandolo delle sue grazie mimiche, del diritto inviolabile di osservare la scena e di rendere lo sguardo sempre più bruciante di applausi, eterna maschera teatrale. Certo che quel volto, quel minuscolo corpo, con il passar del tempo era stato costretto a far dimorare lo sguardo su invisibili ali spuntate miracolosamente quando, all’occhio sinistro, si staccò quell’involucro magico chiamato retina. Quell’occhio non raccontò più, non parlò più, ma al suo posto parlarono quelle invisibili ali di farfalla che assieme all’occhio destro, suo devoto compagno di viaggio, erano in grado di far correre, saltare, rimbalzare, precipitare, fuggire, quell’esile corpo acrobata.

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Ma un giorno maledetto, gli occhi, gli amati figli, che mai prima avevano voluto farsi commiserare per essere nati scarsi di virtù, sprofondarono in un infinito abisso. Da quel momento, durante il lento procedere della giornata, sua altezza era flagellato da un’unica domanda: “Com’è possibile che un principe diventi cieco?” Solennemente le mani si avvicinavano al volto per asciugare una lacrima, una sola lacrima, che spuntava solitaria prima del sopraggiunger dell’orgoglio, giunto a ricordare a sé stesso l’elenco interminabile di titoli nobiliari che dimostravano l’alta discendenza di sua altezza, ma anche il coraggio di un principe che non si arrendeva mai. La sua era stata una vera e propria battaglia araldica. Sì, perché quando ebbe il passaggio alla maturità, quel padre, così tanto ostinato a non trasmettere la sua discendenza nobiliare a quel figlio nato da una proletaria, riconobbe il diritto ad Antonio Vincenzo Stefano Clemente di entrare nella dinastia dei nobili De Curtis. Finalmente un padre! Per di più un vero marchese. Ma la vita gli riservò anche un altro ossequioso riconoscimento che spetta solo a chi nasce nel regno degli eletti, di coloro che vengono forgiati dalle mani degli Dei, di coloro che vengono mandati al mondo con queste parole:  “Scenderai sulla terra per far vivere uomini e donne delle tue virtù! Solo tu saprai donare agli uomini le vere risate di gioia!” Diventato uomo e vero dispensatore di risate di gioia, sua altezza venne anche adottato dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, felice di trasmettere a quel “miracolo divino” tutti i suoi titoli nobiliari.

Poi con i ricordi sentì di possedere ancora quelle invisibili ali: era giunto il momento di tornare a teatro. Mancava solo il mazzolino di fiori, il delicatissimo omaggio floreale che, all’insaputa di occhi indiscreti, avrebbe fatto trovare, come s’addice ad un vero principe galante, alla nuova attrice scritturata da poco per il felice esordio. Preparare il mazzolino era compito di Nina, la governante, ma Nina oggi s’ostinava a non rispondere ai suoi perentori richiami. Solo qualche secco rumore che proveniva da uno spazio non ben definito…

e il principe non trattenne più nessuna parola.

“Malafemmina…non vuoi venire? Vuoi lasciarmi solo, o te la sei presa perché non ti ho mai raccontato come il principe, il grande Totò, sia diventato cieco? Vuoi conoscere questo mio segreto? E allora ti racconto del Principe de Curtis, Principe della comicità. L’illustrissimo principe si mette a nudo….Ssssh…va in scena il primo Atto, si recita a braccio: “La farsa del Principe al buio”.

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Ricorda mia cara, un tocco magico con il pollice e il medio e il principe possedeva la magia di far tramontare le luci, mentre sperdute lucciole danzavano dentro ai grandi lampadari del teatro. E allora faceva capolino il mio occhio destro. Oh sì! come si divertiva ancora a scorgere le luci, a vedere come si cambiavano d’abito, per poi svanire nel riposo serale. L’ho sempre chiamato il mio “occhio bambino”, perché come ogni bambino possedeva l’arte di rapire i sogni del pubblico. Osservando abilmente le loro espressioni, i loro volti, ne carpiva i segreti. Tante volte, l’occhio bambino, sconsolato, tornava dal principe: “Ehi! Nel pubblico ci sono persone tristi…le ho viste, le ho scoperte….Perché non ridono più?”

Ma riuscivo sempre, dico sempre, a rassicurarlo con queste parole: “Non preoccuparti…tu rimani con me…vedrai che il principe riuscirà a creare per loro vere risate di gioia!” E arrivavano le vere risate di gioia, spuntavano felici di esistere, dentro ai cuori, ai volti di chi finalmente rideva. E come riuscissi è un segreto che avevo fatto scoprire solo all’occhio bambino, poiché assieme vivevamo l’opera della vita.

In quest’opera della vita i geniali fermenti, i veri principi, rimangono per sempre. Io…io i personaggi li ho sempre rivestiti della mia immagine. Sono loro che aspettano solo che il principe li vesta di vera onorificenza. Mi chiedi quali siano le vere onorificenze? Su…non dirmi che non lo sai…L’applauso del pubblico! Da sempre, di quel pubblico che considera Totò la più straordinaria maschera comica del vecchio e del nuovo continente, il vero “Principe dei comici”. Ti par poco? Questa mia maschera descrive la realtà, ma riesce anche a capovolgerla. E per dirtela tutta, non sono mai andato alla ricerca di uno stile, perché lo stile della recitazione mi è stato donato, essendo principe, fin dalla nascita.  Sei curiosa di sapere come si possa accedere alle mie grazie? Non serve denaro, né preziosi regali, il principe prima di concedere il dono della sua ospitalità, formula la sua consueta domanda: “Siamo uomini o caporali?” Perché, mia cara, al mondo ci sono gli uomini,  quelli che soffrono, lavorano e sopportano, e i caporali cioè quelli che fanno soffrire gl’altri, maltrattandoli perché convinti di un’autorità immeritata e, forti di una disciplina, impongono ai sottoposti l’obbedienza senza discussione. Purtroppo, anche il principe cadde nella disgrazia di conoscere questi caporali. Uomini, anzi, caporali odiosi, sempre uguali a sé stessi, fedeli solo alla loro arroganza. Ora, mia cara, avrai già scoperto a chi concedo il dono della mia amicizia. Spesso non serve nemmeno formulare la domanda, perché il principe sa trasformarsi in un gatto regale e come i gatti possiede il senso animalesco dell’amicizia, come i gatti sente subito chi è amico e chi è fetente! C’è un segreto che comunque ti voglio svelare: ad ogni film ho sempre pensato che sarebbe stato l’ultimo.  Perché il pubblico sa essere anche una bestia ingrata, ha degli umori stranissimi, ti dimentica facilmente. Ma appena arrivava questa fottuta paura, al grande principe gli si chiedeva di fare un altro film o di recitare un nuovo varietà. Pensa un po’ che al principe, profondo estimatore d’arte, è stato chiesto di far vivere sul set la vita di un copista, l’unico copista in grado di copiare perfettamente la Maya Desnuda del Goya.

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 D’ora in poi potrai chiamarmi “Principe de Curtis Goya”. Mi chiedi cosa ci fa il principe con il Goya? Vera e affascinante è la mirabile frase del Goya: “Darò una prova per dimostrare coi fatti che non ci sono regole in pittura”. Anche il grande Totò ha voluto dare una prova memorabile: dimostrare che nell’arte della recitazione non servono regole. Il vero attore non ripete mai una scena. Dove la metti altrimenti l’improvvisazione?

Rammento ancora le parole di Francisco: “L’oppressione, l’obbligo servile di far studiare e seguire a tutti lo stesso cammino, è un grande ostacolo per i giovani che andranno a professare un’arte così difficile.”

E’ tutto così vero, i veri artisti sono i veri innovatori! Solo loro sanno inventare la vita anche quando arriva il tocco maledetto della morte…

arriva mentre reciti in mezzo al cielo…

mentre vivevo in mezzo al cielo.

Quel giorno la recita era in un teatro speciale, il teatro Politeama di Palermo, creato da chi amava il cielo. Pensa un po’, negl’occhi di Giuseppe, il progettista, trionfava il colore azzurro. Azzurri i suoi occhi, azzurri gli occhi della sua amata, e azzurro il cielo che amava così tanto da volerlo mettere nel grande teatro. E dentro, sul sipario, mise pezzi di cielo.

Era così, proprio così, quel giorno avrei recitato in mezzo al cielo! Com’era felice, com’era emozionato il mio occhio bambino. “Chi ha mai recitato in mezzo al cielo?” mi chiedeva incuriosito.

“Noi, noi…Vedrai che meraviglia quando spiccheremo il volo” parole di un vero padre all’amato figlio.  E quel giorno iniziammo a volare nel cielo del grande teatro, volammo nel cielo della vita, felici di esistere, felici di creare ancora “Vere risate di gioia”. Per sempre, le avremmo create per sempre…Noi due, assieme.

Ma improvvisamente l’occhio bambino non parlò più, non rise più. Capisci? Lo sentii morire senza che avesse avuto il tempo di chiedere aiuto. I dolori lancinanti che mi squartavano la testa, quelle lance affilate che mi incidevano il respiro erano la prova che era morto…morto! Capisci? Io ero cieco!! E il cielo diventò nero. Spaventosamente nero.

Anche questa volta, il principe rimase all’altezza della sua carica, della sua divina discendenza. Nessuno del pubblico capì nulla. Soffocai l’urlo e così pensarono che quegli sbandamenti fossero parte del copione. E le lacrime? Anche quelle, parte di un copione e, di quale, nessuno si pose la domanda. D’altra parte il Principe dei Teatri improvvisava sempre. Ma si può improvvisare la vita? Dimmelo tu, che la conosci così bene!

Il pubblico rideva e applaudiva….Riuscii anche a fare la passerella. E quando fuori dal teatro la folla voleva l’autografo, solo un piccirillo, un piccolo bambino, mi chiese: “Come stai principe?” una carezza, i piccoli hanno bisogno di scherzare: “Il principe ha quattro occhi: due occhi come i tuoi e due antenne speciali come le farfalle.”

Nei giorni seguenti pensai di morire, di farla finita per sempre.

Ma si può vedere anche con il nero.

Sì, mia cara…anche con il nero ti riconosco…

Ma che Nina! La vera malafemmina sei tu, compagna da sempre.

Ricorda che al principe spettano ancora risate di gioia!

Principe al buio, ma pur sempre Principe. Ssssh….non dimenticare che i titoli nobiliari rimangono per sempre, anche da vecchi. E oggi ho trovato il modo per rinviare il nostro abbraccio.

Hai proprio ragione mia cara, chi si ferma è perduto!”

 

“E’ vero mio principe!

Io comunque attendo…

Anche la morte può attendere…”

il principe gigante

 

 

Goya: AUN APRENDO-Apprendo ancora

il gigante a riposo

 

 “Ma ne escapado de buena” l’ho scampata bella da una misteriosa e pericolosa malattia, scrive Goya nel 1777 all’amico carissimo Martin Zapatera.

Si parla di sifilide, ma stando agli indizi non sempre sicuri, la diagnosi si dimostra incerta. Il 19 marzo 1793, Martinez, l’amico che ospita Goya a Madrid, informa Zapater delle condizioni del Maestro: “Goya tira avanti adagio, quantunque un po’ meglio…il rumore in testa e la sordità non allentano, ma va molto meglio con gl’occhi e non ha più i disturbi di prima che gli facevano perdere l’equilibrio. Ormai sale e scende le scale, e insomma fa le cose che non poteva fare più”

Alla fine del 1819, all’età di settantatré anni, Goya si ammala di nuovo gravemente ed è sul punto di morire. La malattia, che nel 1793 lo aveva lasciato completamente sordo, si ripresenta con tutti i suoi sintomi.

Goya attribuisce la sua guarigione alle cure del medico Arriete. Durante la convalescenza, l’anno seguente, esprime la sua infinita gratitudine nel dipinto”Goya curato dal dottore Arriete”, esponendo al pubblico il proprio stato di debolezza e di sofferenza. In questo mirabile dipinto, l’artista dipinge se stesso che lotta contro la morte aggrappandosi alle lenzuola. Lo stato di sofferenza è reso misteriosamente dalla ferma sollecitudine del dottore, che si rivela nella forza del braccio che porta la medicina alle labbra del malato. L’iscrizione sul dipinto dice “Goya con particolare gratitudine al mio amico Arriete per la compassione e la cura con cui gli ha salvato la vita nella pericolosa e grave malattia sofferta”

goya e dottore aurier

Arriete, dottore molto conosciuto a Madrid, viene in seguito inviato in Africa a studiare la peste bubbonica. Nel 1825 Goya soffre nuovamente di una malattia debilitante; la sua vista si riduce a tal punto che è costretto a lavorare con una lente di ingrandimento. Ma nonostante la malattia, i suoi dipinti rivelano un’incessante energia. Da uno scritto dell’amico e poeta Moratin,  si scopre che “L’artista dipinge senza correggere mai quel che fa”

Sempre Moratin lo descrive così al suo arrivo a Bordeaux: “Arrivò Goya, sordo, vecchio, torpido e debole e senza sapere neanche una parola di francese, ma tanto desideroso di vedere il mondo”

In questi ultimi anni della sua vita, Goya non perde il suo umore fanciullesco. In una lettera all’amico Zapater si lamenta di invecchiare prima del tempo. Goya scrive l’ultima parte della lettera con il dito intinto nell’inchiostro, come un fanciullo.

imparo ancora goya

Esiste un suo foglio a matita al Prado, numero 54 dell’ “Album G”, di sicuro disegnato a Bordeaux nel 1824-28, raffigura un vegliardo che procede appoggiato a due bastoni; sopra appare la scritta AUN APRENDO “IMPARO ANCORA”, parole che sanciscono l’omaggio di Goya all’eterna giovinezza della vita. Giovinezza data solo con il rinnovamento dell’esperienza.

la tavolozza di goya

Il 1 aprile 1828 (il giorno dopo la paralisi lo arresta, in attesa della morte che giungerà il 15 aprile) Goya scrive all’amato figlio Javier:

” Caro Javier, non posso dirti altro che, con tanta allegria, mi ha sorpreso una piccola indisposizione e sto a letto. Dio voglia che ti veda venire a trovarmi, che sarebbe tanto quanto desidero. Possa Dio concedermi di vederti e allora la mia felicità sarà completa.

Addio, tuo padre”

 

Perché questo scritto?…

Aprile 2018, Sono a Palermo…

dopo tre mesi vedo mio figlio! La felicità è immensa! Siamo assieme al Teatro Politeama, quel grande teatro progettato da Giuseppe Damiani Almeyda il cui sipario splende d’azzurro. Una splendida voce mi racconta che qui, al Politeama, Totò fece l’ultima sua recita.

Qui, il Principe dei Principi, diventò completamente cieco, perdendo anche l’uso dell’occhio sinistro. Da quel momento una domanda forgia le mie giornate a Palermo: si può vedere anche con il nero?

trovo la risposta lentamente, vivendo la storia di Totò…

Entro finalmente nel mio sipario…

divento Totò.

Nel buio vivo una scoperta…

anche con il nero si può vedere…

si  può amare la recita della vita!

per sempre

 

qualche curiosità:

nel 1915 Antonio Vincenzo Stefano Clemente (in arte Totò) si arruola volontario e viene mandato prima a Pisa e poi destinato in Francia. Ma alla stazione di Alessandria, fingendo un attacco epilettico, riesce a farsi ricoverare nell’ospedale militare di Livorno. E’ all’esperienza della vita militare che farà risalire la celebre espressione “Siamo uomini o caporali?”

Nel 1936 Totò perde definitivamente l’uso dell’occhio sinistro a causa del distacco della retina.

Nel 1959 nel film “Totò, Eva e il pennello proibito”, Totò interpreta la parte di un copista che avrà un incarico speciale: copiare perfettamente la “Maya Desnuda” di Goya esposta al Prado.

il 3 maggio 1957, mentre è in scena al Teatro Politeama di Palermo, perde completamente l’uso della vista.  Continua a recitare fino alla fine dello spettacolo e omaggia il pubblico presente con la passerella finale. Il sei maggio lo spettacolo è sospeso con forte disappunto dell’impresario Paone che, non credendo alla gravità dell’accaduto, manda a Totò una visita fiscale.

Il Principe dei Principi, continua a sognare anche nelle parole di questa sua canzone:

Da “Siamo uomini o caporali”,  Totò canta: “O core analfabeta”

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Questo post è dedicato a Maria e a Emily

al dono che ho avuto di vivere assieme cinque splendidi anni.

In quell’ aula trasformata in un magico castello, ci siamo sentiti veri Principi e vere Principesse in un viaggio inestimabile.

Grazie!

A presto

Adriana Pitacco