A Emma, che con la sua risata cristallina e con il suo coraggio mi conduce alla vera essenza della vita e mi ricorda queste parole: “Questa vita insieme intera, piena e indivisibile in ogni senso, che inerisce all’essere….ed è nell’essere di ogni individuo l’eternità che cerchiamo”.
Secondo quanto riferito dalle autorità locali, il nuovo centro d’accoglienza per immigrati si trova in una zona ridente, particolarmente adatta a far vivere gli ospiti in un clima gioviale finalizzato alla collaborazione, a far crescere in loro il desiderio di vivere assieme. Un luogo definito dai quotidiani locali come “oasi di pace”, nel silenzio celebrativo della multiculturalità. Mi ostino comunque a non tralasciare mai i miei dubbi: non ho perso l’abitudine di mettere a soqquadro idee, giudizi così ben architettati, costruiti abilmente…Ma per chi?
Riesco ancora a mascherarmi da persona avveduta, ossequiosa verso chi continua a osannare quel fertile e caritatevole amore per il prossimo che rapidamente si sta diffondendo dentro al campo, dentro a quel grande grembo materno nato per accogliere i desideri di vite finalmente non più tradite. E il centro, questa madre attenta e premurosa, si prodigherà in tutti i modi, perpetuando immensi sacrifici per soddisfare amorevolmente l’esistenza della sua nutrita prole. Oggi, questa fertile madre, ci concede il dono di poter ammirare le sue doti organizzative, unite a un sano spirito d’abnegazione. Trionfante, decisamente trionfante, decide di accoglierci, sicura che assieme festeggeremo le sue grazie materne. Mi travesto, implorando a me stessa di scovare qualche verità.
Entro, il calore divampa nell’aria mentre le corolle fiammeggianti guizzano viscide dentro l’aria stagnante. Arranco grondante di sudore, alla ricerca di un lembo d’aria fresca.
E alla luce delirante del sole si ricompone il silenzio del mio sguardo.
Gli occhi rapaci cercano di rapire nel più breve tempo possibile quello scorcio di paesaggio umano mutilato, orrendamente deturpato, privato della sua dignità. Corpi violati dalla fame rantolano brevi passi per mendicare del cibo senza il brulichio di insetti.
Poi spuntano come germogli stanchi i volti di giovani donne, mentre sciamano in un impietoso silenzio i loro desideri. Sferzati dalla solitudine inaridiscono i loro pensieri. Sono volti che si muovono con sgomento e orrore. Le sentinelle del campo arrivano come scimmie abilmente ammaestrate, iniziano a fischiare, a sibilare come serpenti nella sabbia, pronte ad adocchiare nuove prede.
Si annidano davanti ad ogni recinto, intente a falciare ogni passo di chi possiede ancora l’istinto della fuga. Lo chiamano “semplice istinto animalesco”, di chi non possiede nessuna dose di raziocinio, nessuna dose di gratitudine. Il loro è un compito particolarmente oculato: rintracciare i passi di chi cospira contro il rigore educativo del campo, contro l’amore caritatevole offerto a quei poveri selvaggi. Ben presto saranno educati a rispettare le regole di convivenza, a non tradire il loro dono quotidiano.
Tutti, compresi donne e bambini.
E così si sfregia la vita nell’urlo silenzioso del campo.
Scialba la natura è costretta a non rivelare nessuna traccia del loro dolore.
Cammino, sostituendo i pali di filo spinato con alberi dalla chioma rigogliosa, rammentando che ad ogni ora il sole sicuramente mi offrirà i suoi colori, dentro ad ogni attimo di luce, dentro all’attimo vivo dell’esistenza.
Ma rimangono ancora da contare le innumerevoli gabbie che ospitano chi ha deciso di arrendersi. Volti vitrei, corpi terrosi, naufragati qui, nell’isola della morte, sono rannicchiati in angusti scheletri metallici con la vaga parvenza di letti. Nell’oblio della letargia rimangono ancora in posizione fetale. Perché?
Sono volti, corpi snidati dalle loro case, dalle loro intime abitudini quotidiane.
Ma anche in una vita smembrata della sua linfa vitale rimane ancora il respiro della nascita. E così mi trasformo in una venditrice ambulante di sogni per trasportare questi corpi senza più identità nell’istinto della vita. Prima di vendere qualche sogno, provo a cullarli teneramente.
Poi aspetto che qualcuno mi ascolti, mentre una luce giocosa vibra fremente in due piccole mani che mi invitano a seguirle.
“Vieni…la mamma ti vuole vedere! Ti ha riconosciuta sai! Lei vuole farti vedere la nostra tenda…mamma dice che nella nostra tenda si vedono i colori del cielo”
Occhi vispi, chioma arruffata, sembra un piccolo gatto selvatico che si districa abilmente dentro al reticolo del campo.
Ancora qualche passo e finalmente l’infanzia del giorno si svela in una risata giocosa che mi offre il suo saluto: “Oh, non hai perso l’abitudine di cacciarti nei guai!” Provo a scovare ogni minimo dettaglio. Mani ossute spostano ciuffi di capelli neri ormai pronti a languire col tempo che avanza, il volto tradisce la sofferenza dei giorni vissuti al centro, ma la sua voce rimane fiera a tributar domande: “La vedi, dolce amica? Anche qui, in questo merdaio, ho saputo costruire la mia tenda blu, verde e rossa…perché blu è il nostro cielo, verde la prateria degli uomini liberi e rosso…Sì! Rosso…il sangue della nostra vita sempre in viaggio! Ma qui… in questo grande centro d’accoglienza?” Qui i bambini possiedono come unico gioco quello di contare questi fottuti scarafaggi che si inzaccherano dentro questa merda d’acqua. Ma almeno gli scarafaggi possono lavarsi, asciugarsi di nuovo al sole… Qui in questo merdaio, le fottute bastarde, le mosche, l’odore della specie umana lo trovano sempre più invitante.
Spariscono le lacrime dagli occhi rimasti ancora splendidamente intensi. Non riesco a staccare lo sguardo dal suo, penetrante, incredibilmente ravvivato dal flusso dei ricordi. Osservo le sue mani appoggiarsi dolcemente sul suo grembo, riconosco quella voce squillante che raduna la sua ciurma per andarsene verso il marciapiede sventrato dal sole. Perché alle sette in punto gli ospiti vengono chiamati dalla dolce madre per il dono giornaliero: una manciata di infima brodaglia. Inflessibile rimane ancora la sua rabbia, come il suo indomito coraggio: “Siamo considerati dannati! Sporchi dannati! Ma noi da questo posto ce ne andremo… Anche questo figlio nascerà con lo sguardo verso il cielo! Ricorda….Siamo solo passeggeri del mondo….a volte partiamo, ce ne andiamo in luoghi lontani”.
Un vivo silenzio piomba tra i nostri complici sguardi.
Volano i ricordi come rondini.
Riconosco il tuo coraggio abituato a scovare nel buio notturno ogni sentiero che ti guidava fino al piccolo ospedale da campo. Rivedo ancora quell’ombra che si dileguava nell’oscurità, perché solo di notte potevi evitare di essere identificata per poi essere arrestata. Che colpa avevi?
La chiamavano “pulizia etnica”….
E prima di annientare la tua vita, ti concedevano il dono di scegliere come sarebbe avvenuta la tua morte: machete? Colpi di arma da fuoco? Bastoni chiodati?
Un dono concesso anche a tuo padre…
Una regalia che non aveva dimenticato vecchie malandate come tua madre….Un modo per eliminarle il dolore della malattia, così era stata definita la sua uccisione.
D’altra parte non potevi certo far parte della “forza civilizzatrice del mondo!”
Al primo controllo dei documenti, per le giovani donne che appartenevano alla tua etnia, lo stupro diventava il preludio inesorabile alla morte.
Ascolto di nuovo le tue lontane parole, lì, al piccolo ospedale, mentre ti battevi i pugni sul ventre: “Guarda! Guarda questo figlio! Non sorride più!! Gli è rimasto solo un occhio per guardare, l’altro si è chiuso! Non cammina più….”
E oggi?…
Vedo nei tuoi occhi l’eternità che cercavo.
S. Rachmaninov, Cello Sonata op. 19, terzo movimento
Pablo Neruda, “Il popolo vittorioso”
Il mio cuore è qui, in questa lotta.
La mia gente vincerà. Tutte le genti a una a una vinceranno.
Queste pene si spremeranno come fazzoletti per asciugarsi di tante lacrime
sparse sui pozzi e sulle tombe del deserto, sopra i gradini del martirio umano.
Ma è vicino il tempo vittorioso.
Che serva l’odio perché non tremino le mani del castigo,
e che l’ora giunga precisa nell’istante puro,
e empia il popolo le vie vuote con le sue fresche e ferme dimensioni.
Sta qui, per quell’ora, la mia dolcezza.
La conoscete, non ho altra bandiera
Théodore Géricault: il coraggio e l’eternità nell’arte
Erano giorni che quell’idea martellava continuamente la mente di Théodore; in fin dei conti la sua fama di pittore avrebbe potuto realizzarsi attraverso un quadro dalle dimensioni imponenti: un quadro sbalorditivo in grado di suscitare emozioni forti, violente, magari anche contrastanti, magari anche ripugnanti, ma nessuno di fronte al quadro sarebbe rimasto indifferente, distaccato dalla tragicità della visione. Un quadro, quindi, in grado di raccontare la forza inestimabile del coraggio dinanzi all’angoscia della morte.
Poteva essere considerata solo un semplice caso fortuito la notizia raccapricciante che i quotidiani stavano diffondendo con una certa dovizia di particolari macabri? Allo stremo delle forze, in una zattera pullulante di cadaveri, erano stati ritrovati alcuni superstiti del naufragio della fregata francese avvenuto il 2 luglio, davanti alle coste della Mauritania. Le testimonianze dei superstiti erano andate al di là di ogni possibile deduzione….Travolti dalla disperazione avevano violato un tabù insito nella dimensione umana: negli ultimi giorni, prima del ritrovamento, avevano alimentato il loro corpo con la carne dei cadaveri.
Vita, morte, totale disperazione….elementi che il destino stava offrendo a Théodore perché la sua arte li rappresentasse in un dipinto che avrebbe consacrato alla storia le sue doti.
Prima di tutto, era necessario far trasmigrare la realtà spietata dell’evento sullo spettro cromatico, quell’abito misterioso che la tela avrebbe indossato. Un tono tragico avrebbe fornito, fin dall’inizio della visione, l’impatto emotivo del dramma.
Rintracciò due superstiti per appurare la veridicità delle informazioni lette e scovare ogni tassello utile a fornirgli quel vortice di emozioni che aveva travolto i naufraghi. Ascoltando il loro racconto, Théodore scoprì come la morte, la disperazione, dentro alla zattera confabulassero con l’istinto della sopravvivenza.
Fin dall’inizio della testimonianza dei due superstiti, Théodore decise di non farsi intimorire da nessuna paura che avrebbe potuto emergere dal suo inconscio; paure rimaste finora latenti, come la paura della morte. Ascoltò con la massima dose di raziocinio, paragonandosi ad un investigatore in cerca di indizi per scoprire il colpevole, in realtà era semplicemente un oculato investigatore affamato di ogni dettaglio per poter rendere visivamente, con la propria opera pittorica, la tensione emotiva che aveva flagellato la vita dei naufraghi dentro la zattera.
L’incubo del cibo che mancava, dell’acqua imbevibile, dell’odore putrido che si radicava dentro il corpo dei morti, del sole che friggeva ogni lembo di pelle, si mescolavano con un incredibile coraggio, con l’intento di sconfiggere fino all’ultimo respiro la sorte avversa.
Avrebbe iniziato il dipinto scrivendo sulla cornice un’unica verità
” L’unico eroe in questa toccante storia è l’ umanità”
A Emma, vera passeggera del mondo
A presto,
Adriana Pitacco