La purezza del sogno della gioventù

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Oggi, io, semplice donna, semplice madre, provo a scrivere a mio figlio lasciando da parte le futili incomprensioni, i banali contrattempi che ci infastidiscono nelle abitudini quotidiane.

Ti ho fatto nascere nel pieno compimento dell’esistenza, nel supremo sforzo delle mie energie. Il giovane medico era troppo indaffarato per dedicarci una minima attenzione. Era la prima volta che in quella piccola stanza d’ospedale dovevano attrezzarsi per assistere a due nascite.

Un’esile tenda, fragile come una foglia accartocciata, ci separava dall’altra giovane madre che invocava, implorava l’ostetrica e il giovane medico affinché le togliessero dal corpo quel dolore che l’attanagliava, che rendeva il suo respiro affannoso, che lanciava ripetutamente un’unica frase:  “Non ce la faccio…non ce la faccio più..” 

Al di là di quella tenda, distesi in uno straccio di letto, io e te, eravamo nella fase decisiva di quel travaglio che aveva spiazzato il giovane medico e l’ostetrica inesperta, perché non avevano certo immaginato che nell’arco di soli venti minuti tu avresti deciso così prepotentemente di conquistare la tua nascita, di issare la tua bandiera per conquistare il tuo e nostro pianeta. Ma insieme avevamo dedicato qualche parola di incoraggiamento alla giovane madre che si sentiva tormentata dal dolore.

“Stai tranquilla…vedrai… tra  un po’ nascerà la tua bambina…prova ad immaginartela!” In quel momento, di fronte al dolore di quella madre, si stava realizzando un miracolo prodigioso tra noi due, tra le tue piccole mani che si muovevano come ali di farfalla e il mio corpo che ascoltava i tuoi battiti. Quei leggeri  movimenti si erano trasformati in un dolcissimo alfabeto, chiaro e preciso nel dirmi che tutto sarebbe andato alla perfezione e che noi due dovevamo trovare anche il tempo per infondere coraggio a quella giovane donna.

Hai aspettato che nascesse Martina, hai voluto ascoltare il suo pianto, poi hai deciso che in breve tempo sarebbe toccato a te appoggiare il primo passo. In quel momento mi risultava nitida l’immagine del primo astronauta che solcava il suolo lunare; come mi aveva affascinato negli anni dell’infanzia il racconto di quell’incredibile scoperta!

Eri troppo indaffarato a conquistare il nuovo mondo che, fortunatamente, non avevi udito le parole del giovane medico. Questa volta era lui che mi implorava di raccogliere tutte le mie forze per farti nascere. Ogni mio movimento doveva tendere a spingere sempre di più, a creare una forza dirompente che ti potesse spingere a varcare il tuo suolo lunare. Lui, povero medico, con la fronte gocciolante di sudore, continuava a ripetere che non avrebbe potuto fare nient’altro…per il parto cesareo era ormai troppo tardi! E poi, com’era nata Martina, saresti nato anche tu.

Ed è in quel momento che ho avuto la piena consapevolezza di come Eros e Thanatos si fondano l’uno nell’altro. Mentre stavo raggiungendo il traguardo della vita, il compimento della tua nascita, sentivo il leggero passo della morte. Rapidamente avevo compreso di avere in mano il tuo destino, il tuo divenir uomo, il passaggio della tua incredibile vita.

Una forza ancestrale, sublime, è riuscita a sconfiggere ogni dolore, ogni paura, sicura di vincere.

Sicura del nostro trionfo, della nostra meravigliosa vittoria! Quanti colori superbamente trionfanti si sono accesi nella tua nascita!

Siamo sempre stati orgogliosi di questa nascita, di questa impresa. Ed è forse per questo che il tratto che ti ha sempre contraddistinto è stato il tuo carattere orgoglioso, a volte testardo, ma incredibilmente battagliero.

Il primo libro che hai voluto prendere in prestito in biblioteca era un libro che parlava dei diritti dei bambini.

Era un tuo diritto inviolabile ribadire a scuola il tuo diritto ad esprimerti, a vivere la tua curiosità, le tue scoperte. E questo diritto si rispecchiava anche nel ribadire come ognuno di noi è diverso e questa diversità è fonte di ricchezza.  “Vedi “- mi dicevi – “Quante cose riusciamo a fare io ed Eric?”

Eric era il tuo compagno affetto da paresi e da mutismo e tu, mi dicevi, riuscivi a comprendere quello che lui desiderava, lo comprendevi con lo sguardo.

Forse questa tua “magia” ti è stata donata dal nonno che ti diceva: “Ricorda piccolo che lo sguardo parla. Gli uomini, i veri uomini, sanno cogliere il linguaggio dello sguardo.”

Guai a chi dei tuoi compagni non capiva Eric! Ti incazzavi tremendamente. Perché quella tua magia era un dono che poteva essere donato ad ogni bambino, bastava volerlo.

Quante volte mi hanno chiamato le “povere” insegnanti dicendo che non capivano perché tu rimanessi tanto vicino ad Eric, soprattutto durante l’intervallo, quando i tuoi compagni uscivano in giardino.

Le ascoltavo mentre mi immaginavo le fantastiche avventure, le meravigliose storie che tu ed Eric vi stavate raccontando. Ecco…avrei voluto essere una farfalla, posarmi su un pezzettino del tuo grembiule, per ascoltare le vostre storie.

Poi con il passar del tempo, nel pieno della tua adolescenza, nel cammino della tua gioventù, mi hai sempre detto:  “Mai rinunciare ai nostri sogni! Chi non sogna è un uomo fallito!”  E come potevo dirti che non era vero? Io continuo sempre a sognare, anzi, il perno della mia vita è riassunto in questa frase: “Sogniamo grandi sogni perché sappiamo di esistere!”

E così hai continuato a sognare dedicando ore e ore di studio per diventare cittadino del mondo, perché solo scoprendo il segreto insito in ogni lingua, saresti riuscito a scoprire il vero concetto di cultura, quello scambio di conoscenze con il più puro mezzo espressivo che ogni uomo possiede: la parola.

Ma oggi?

io, donna, madre, come posso alleviare la tua tristezza? La tua implacabile delusione? Sono giorni che sei tremendamente incazzato. E solo oggi, mentre una lacrima scendeva sul tuo volto, mi hai detto : “Vedi…a noi giovani stanno togliendo il diritto a sognare!”

Poi il silenzio, nessuna parola. Spesso però il silenzio racconta più di un’infinità di parole.

Ed è dal tuo silenzio che ripercorro a ritroso la tua rabbia, quell’urlo che cerchi di trattenere.

Ricordo ancora quando orgoglioso mi avevi annunciato che finalmente il governo aveva fatto qualcosa per i giovani, per il loro inserimento nel mondo del lavoro.

“Ecco! Finalmente qualcuno pensa a noi giovani” alla tua frase ho solo aggiunto: “Forse questo è un governo che infonde coraggio ai giovani!”

A dirti la verità, tu non hai mai avuto bisogno che qualcuno ti infondesse coraggio. Sei sempre stato battagliero, mai hai rinunciato alla dignità dei tuoi valori, alla ricchezza della tua esistenza.

Ma poi cos’è successo? Strada facendo, l’elenco delle ingiustizie è lungo, forse interminabile.

Le umiliazioni sono tante, troppe.

Ti hanno fatto acquistare dei vestiti per farti vestire come un pinguino addobbato a festa, come richiedeva l’albergo di gran categoria, ti aspettavi di poter sfruttare le tue approfondite conoscenze linguistiche…Pura illusione! Ti hanno solo detto che ogni giovane deve imparare ad essere umile e senza darti nessuna spiegazione la cara Direttrice ti ha mandato a fare le “doverose” pulizie, senza nemmeno preoccuparsi delle più elementari norme igieniche. Avevi la speranza che quello straccio di contratto fosse tutelato, insomma, ci doveva pur essere qualcuno che tutelasse i giovani…. Ma il buon governo, il buon papà, non contempla nei suoi “grandi progetti” questa futile richiesta . Ogni giovane è quindi costretto a tutelare se stesso… Ma come? Hai afferrato di nuovo il tuo sogno, ancora caparbiamente orgoglioso non hai voluto fartelo scappare via, magari in qualche grande aula di retorica, dove i saggi portano ad ogni udienza, ad ogni loro convocazione, i sogni che sono riusciti a decimare. Entusiasti li appendono nella grande sala, chiamata Parlamento, come nobili trofei. Ti sei sistemato quei pochi indumenti che il peso della valigia consente. D’altra parte il vero peso è sostenuto dai tanti libri che hai deciso di portare con te, in qualche luogo dove esiste il merito di essere giovani. E solo il tuo sguardo ha trasformato in parole la tua rabbia: “Ma non è la stessa Costituzione italiana che ribadisce il diritto al lavoro e quindi il diritto alla dignità di ogni giovane nel proprio Stato?” Quando me lo rammentavi riuscivi a cogliere sul mio volto un lieve tratto di malinconia.

Queste parole mi rievocavano la perdita di quella coppia di partigiani, un uomo e una donna, legati da indissolubile amore, che convinti della ricchezza straordinaria della gioventù hanno dedicato durante la loro vecchiaia la crescita della mia adolescenza. Quante volte ti ho parlato dei tuoi bisnonni, di Adriana ( alla quale la nonna ha dedicato la mia nascita) e del tuo bisnonno, il partigiano, il Mario che non si arrendeva mai.

Sono sicura che nel primo atto del tuo concepimento, nel primo istante della tua vita, hai portato con te quella testimonianza di coraggio, di lotta, che fa parte della nostra storia, di una lontana memoria. Qualcuno lo chiama albero genealogico, io non riesco a mettere etichette. E’ semplicemente quell’alchimia di coraggio, di indissolubile amore per la vita che ha sempre legato i tuoi nonni, i tuoi bisnonni, quella lontana donna alla quale solo la perdita dell’adorato compagno aveva fatto perdere lentamente il desiderio di vivere. Giorno dopo giorno, aveva deciso di andarsene, di lasciarsi andare. E quel giorno, qualche ora prima della sua morte, aveva chiesto di indossare il suo abito da festa. Mamma l’aveva vestita, aveva raccolto i suoi lunghi capelli in un elegante crocchio, poi aveva lasciato la stanza.

Eravamo rimaste solo io e lei…era quello che aveva chiesto perché era fermamente convinta che solo i giovani riescano a cogliere la vera testimonianza di chi se ne sta andando, di chi non potrà più lasciare l’impronta della sua voce.

E così, caro Alvise, queste sono state le sue ultime parole: “Io ritornerò sposa dal mio Mario…E sono felice sai…perché non ho tradito nessun sogno. Ricorda piccola, il coraggio è la forza della nostra esistenza”.

Quando leggerai questa mia lettera, so che non mi dirai nulla, non abbiamo bisogno di parole: siamo abituati a cogliere la forza dello sguardo.

Sono sicura che i tuoi grandi occhi neri continueranno a lottare, a rivendicare il diritto della gioventù a sognare e a far vivere la voce di ogni vita, anche quella di lontana memoria.

A mio figlio

ai giovani, vero fulcro dell’esistenza

di Pierangelo Bertoli , “A muso duro”

 

L’ arte e il merito di essere giovane : Raffaello

 

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6 aprile 1520, al venerando Papa Leone X, il qui presente Pandolfo Pico, ambasciatore d’Isabella d’Este porta la notizia della morte di Raffaello d’Urbino, durante la notte passata che fu quella del Venere santo, lasciando questa corte in grandissima e universale mestizia per la perdita della speranza delle grandissime cose che si aspettavano da lui.

 

Povero ambasciatore, ancora ingenuo o investito troppo della sua onorata carica.

Ma egli non ricorda che al Papa è permesso di mandare tutti gli emissari che desidera, in ogni luogo e in ogni momento, per arrivare a scoprire prima di ogni altro la morte dei suoi amati fratelli. E io, ne sono venuto a conoscenza, giusto il tempo necessario al mio cameriere di percorrere i pochi metri che distanziano la basilica di San Pietro dal palazzo Caproni.

E’ morto lo stesso giorno della sua nascita.

E forse basta solo questa notizia per poter iniziare il racconto del suo breve e illuminante viaggio terreno. Perché a nessun uomo comune, il giorno del suo lascito terreno, è dato coincidere con il giorno della miracolosa nascita. Ogni nascita è un puro miracolo e con Raffaello il miracolo si è perpetuato tutte le volte che ha creato le sue opere, pura nascita nel divenir della sua esistenza.

Non potrei dirlo, ma qualcuno attribuisce la causa della sua morte all’eccessivo ardore con il quale, nei giorni precedenti , ha carpito alla giovane Fornarina il segreto della sua bellezza. Quel segreto, il giovane Raffaello, ha cercato di trasportarlo in quel ritratto di universale bellezza nato come la “Fornarina”, donna che l’ha condotto alla vera biografia dell’arte; donna voluta addirittura accanto a sé mentre ha disegnato la loggia del nobile Chigi. Il giovane maestro ha desiderato rapirle il fascino e fissarlo per sempre in un’eterna bellezza. Ma il quadro, alla sua morte, è rimasto ancora in lavorazione. E sono sicuro che egli desiderava finirlo accanto a Dio.

A noi rimane solo la gioia di contemplare la sua universale bellezza, in pura estasi…

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Anche se questa gioia si scontra con un forte dolore.

Voglio fermare il tempo, mio Dio, e vergare su questo foglio il ricordo di questo giovane amico, questo mio amico fraterno.

Perché anche il Papa ha l’antico bisogno di avere un amico…un amico pittore, architetto, scenografo che ha creato immagini di sconvolgente bellezza. C’era tutto il creato nelle sue mani. Erano mani divine le sue, mani che esprimevano la purezza del sogno della gioventù.

Mani che interpretavano la rinascita dell’umanità da realizzare attraverso le opere pittoriche e gli studi letterari.

E senza di lui, io, forse, non avrei potuto contemplare la grazia divina dell’arte.

Senza dimenticare che la sua era pura passione, quel fervente atto creativo che solo i giovani possiedono. In ogni attimo della sua esistenza era felice.

Felice di esistere.

A volte penso che questo sia il vero motivo che mi fa amare così tanto le sue opere, senza aver la necessità di analizzarle con studi analitici, compendi di pittura.

Quale grazia inestimabile gli hai donato?

Il miracolo era già insito nella sua nascita, nel grande amore della giovane madre, nei tratti decisivi e sapienti del padre terreno: il grande Giovanni. Quel padre, padrone superlativo di molteplici tecniche pittoriche, che con maestria accolse come un gran dono il talento precocissimo del figlio.

Sovente egli mi raccontava che nella bottega del padre, adorava soprattutto l’autunno così malinconico e riflessivo. Stagione che lo conduceva a studiare pazientemente, sotto la guida di Giovanni, la fisionomia dei paesaggi in armonia con la fisionomia di uomini e donne, fino ad arrivare ad una precisissima cura del dettaglio. Era convinto di aver ereditato dall’amato padre quella misteriosa capacità di far affiorare sulla tela l’anima di uomini e donne.

Gli rimase sempre riconoscente, anche dopo la sua morte, quando a soli diciassette anni il giovane Raffaello stipulò un contratto con Andrea Borani per una pala all’altare della chiesa di Sant Agostino, nella città di Castello.

A volte mi raccontava dei suoi colori, come un padre parla dei suoi figli. E li accudiva come vere e proprie creature.

Con il passar del tempo, egli migrò con i suoi colori, il suo fervore creativo, la sua gioventù, nelle sedi prestigiose che acclamavano i suoi tratti, la precisione assoluta delle sue linee, il mistero del suo sguardo. Perfetta era la sua comprensione ottica.

Ma chi poteva trovare a Firenze se non un’anima a lui affine? A Firenze trovò Leonardo  e la presenza dell’altrui genio suscitò in Raffaello un’ondata di ammirazione. Di Leonardo riuscì a vedere alcuni cartoni preparatori della battaglia di Anghiari, e deliziato fu lo sguardo nel cogliere il furore vivo dei cavalli.

Carpì il segreto dell’uso rivoluzionario della matita nera e la sanguigna, tanto amata da Leonardo. In effetti questa tecnica gli permise di sfumare meglio le ombre.

Ma di Leonardo amò anche il sorriso inafferrabile nel ritratto di Ginevra de’ Benci, l’impostazione obliqua che diede alla figura femminile. E mai, dico mai, fu sedotto dall’invidia.

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Il giovane amico, si calò talmente con entusiasmo nel mistero di Leonardo, che durante la decorazione della stanza della segnatura diede a Platone il volto del maestro.

E ogni giorno la sfida divenne sempre più ardua, ma incredibilmente prodigiosa.

Come il suo arrivo a Roma.

E a Roma riuscì a creare il Paradiso in terra.

Ed è nei quadri, nelle opere dell’amico fraterno Raffaello, che ogni uomo coglie quell’immutabile eternità della vita, data dalla purezza del sogno che solo i giovani possiedono.

Papa   Leone x

In ricordo

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Ps: vi chiedo di scusarmi, di scusare la mia innata voglia di travestirmi…

perché dopo essermi seriamente documentata e aver peregrinato da una biblioteca ad un’altra, ho voluto migrare in un teatro pirandelliano, per indossare l’abito di Papa Leone x,  e raccontare con la mia scrittura il rapporto profondo che lo legava al mio amato Raffaello.

 

A presto   Adriana Pitacco