Il sentimento dell’ esistenza

Modigliani bel giovane 1

Ho la febbre dell’inganno…

L’inganno del tradimento.

In burrascosa tempesta naviga la mia mente…lo sento…l’eccitamento, la violenza dell’inquieto eccitamento pervade il mio corpo.

Il dovere è implacabile! Devo ingannare la morte per trucidarla. Il mio unico dovere è salvare i miei sogni. Io, solo io, sono ancora l’unico strumento delle potenti forze che nascono e muoiono in me e nessuna forza abbandonerà al suo destino il mio infame corpo.

Schifosamente infame, pronto ad accogliere l’infausto esercito che avanza dilapidando il mio respiro, contendendosi le mie forze. I miei lineamenti sono arroccati su una grottesca maschera fustigata ovunque da piaghe.

Inutili medici saturi di sapienza ricevono il mio corpo nell’illusione di poter comprendere la fine del suo declino, dentro a quell’ombra luttuosa che chiamano agonia. Nessuno dei loro grotteschi volti vede il permanere della mia coscienza. Non vivo di lamenti, non domandatemi chi sono, né chiedetemi che io rimanga invariato. Il mutamento è il destino del grande Modì!

Poveri medici assetati di giudizio, trascrivono parole vuote in un verdetto finale: “Qualche ora… al massimo un giorno e il necrologio su quest’uomo sarà pronto.” Illusi! Loro non sono in grado di scoprire il mio volto, tornato al rifiorire della mia nascita. Oltraggio la loro implacabile sicurezza mentre riscrivo il mio tempo: non sarò mai un sopravvissuto alla morte…Lei non mi appartiene!

Modigliani nudo dolente

Voglio ancora che la mia vita sia un torrente fertile che attraversa la terra con gioia. Non chiedo nulla a nessuno, chiedo solo di ritornare a percorrere le mie parole, un tumulto di bellissime immagini. E oggi il mio volto resuscitato, il volto del piccolo Modì, dimora negli occhi di suo nonno: il grande Isaac.

Ho ancora il potere di farti rivivere, Isaac, perché tutto ciò che desidero si conserva nella mia memoria. Rivedo i tuoi occhi, i tuoi malinconici occhi neri. Ricordi? Il piccolo Modì a cinque anni scoprì le loro armoniche linee espressive ma non volle mai disegnare il tuo sguardo, così inquieto, così misterioso. Oh Isaac! Ho vissuto il tuo nome nella sete della tua conoscenza, ascoltando la tua voce.

Ma dimmi…sono stato anch’io creato con le tue parole?

Le sento ancora.

Vedevo il sole splendere nelle tue parole.

La mia nascita ti appartiene.

certificato di nascita 6

Mi aspettavi ed era la prima volta che attendevi il compimento della nascita. Non desideravi una nascita miracolosa, una nascita dedita ai principi della religione, non avevi più nessuna religione da idolatrare, né preghiere da esortare nei tuoi silenzi.

Non più osservanza, studio, dottrina, adorazione.

Avevi bisogno di commuoverti realmente, di vivere le parole del progenitore della nostra famiglia. Il capostipite della nostra nascita era il grande filosofo Baruch Spinoza.

ritratto di Spinoza

I giorni precedenti alla mia nascita offristi il tuo tempo alle parole di Spinoza: “Dopo che l’esperienza mi insegnò che tutto quello che si incontra comunemente nella vita è vano e futile, stabilii di ricercare se ci fosse un vero bene che si comunicasse a chi l’ama e ne occupasse da solo l’anima respingendo tutte le altre cose.”

Non avevi bisogno di condurre la tua vita con il rifiuto dei beni materiali poiché la sorte aveva già distaccato la nostra famiglia da questi, così desideravi solo raggiungere il bene vero ed eterno. Non avevi nessun dubbio! Nell’attesa della mia nascita il tuo pensiero era  chiaro e distinto, perché vivevi l’assoluta certezza che il raggiungimento del bene vero, eterno, si sarebbe realizzato con la mia stessa nascita. Per elevarti alla vera conoscenza avresti percorso con me la mia vita, l’origine delle tue conoscenze sarebbero sorte dalle mie scoperte. Il tuo piccolo Modì ti avrebbe permesso di cogliere la conoscenza del mondo in modo immediato, perché immediato sarebbe stato il mio talento.

Il tuo pensiero e la mia realtà si sarebbero creati in un unico atto originario.

La mia nascita non fu circondata da tanta purezza. Il quadro che potrei rappresentare non apparterebbe certo alla tradizione sacrale del grande evento. Alle urla di dolore di mia madre si sommavano i passi dell’ufficiale giudiziario pronto a latrare il suo annuncio, quando la sentenza della prefettura di Livorno divenne drammaticamente inequivocabile: “Liquidazione del patrimonio della ditta Modigliani alla banca di Livorno.”

Ma nella forma pura e idolatrata della nascita vigeva un’antica consuetudine: nessuno poteva portare via ciò che era custodito nello spazio vitale della puerpera.

E, fortunatamente, l’antica consuetudine si perpetuò anche a casa Modigliani.

Venni al mondo tra l’odore della polvere e il testamento di poveri rimasugli della scomparsa ricchezza di mio padre.

Nessun entusiasmo per la mia nascita sfilò sul  volto stanco di mio padre e ben presto si prestò a sfoggiare la sua diplomazia affaristica per chiedere clemenza al ghigno e alle parole rancorose dell’ufficiale giudiziario: “Colui che più possiede è colui che ha più paura di perdere.”

La sua mente inscenò una grottesca farsa mal sopportata dal suo focoso temperamento, esplose un’insopportabile artiglieria di parole, di proiettili di rabbia pronti a cancellare  la sentenza, rivendicando le ricchezze cadaveriche ormai sepolte sotto le macerie della sua disfatta.

E, in fondo, in una minuscola stanza, rimanevi tu, Isaac, nel tuo silenzio, in attesa dell’ora dello stupore. Nessun ricordo emerse dalla tua feconda memoria, perché l’estasi del presente si stava finalmente realizzando: ti saresti unito alla divinità del piccolo Modì, “l’anima del mondo”.

Giunse l’ora della scoperta.

Soddisfacesti il tuo amore per la vita, percorrendo per la prima volta con lo sguardo il mio esile corpo: ero il respiro della tua anima, i tuoi occhi sarebbero appartenuti solo al piccolo Modì.

Come ti conosco Isaac…

Come ti conoscevo fin d’allora!

Nei giorni seguenti alla mia nascita mio padre iniziò ad annotare i beni sopravvissuti al pignoramento; il suo unico dovere non fu quello di salvare i suoi sogni ma di idolatrare le sue forze. “Siamo in attesa del momento giusto”  erano le uniche parole con le quali mio padre si congedava rapidamente da mia madre. Fu sempre convinto che fallì per l’originalità delle sue imprese. Per anni la storia di mio padre fu una narrazione di successo. Conquistò terre aride e selvagge per far trovare ospitalità al suo piano affaristico. Negli anni precedenti alla mia nascita, nelle miniere di mio padre lavorava un centinaio di operai, un delirante formicaio organizzato per scovare tracce di minerali dentro alla polvere, che avrebbe ben presto spento la forza vitale del loro respiro.

quadro trittico della miniera

Loro all’inferno, mio padre a banchettare e a sfoggiare la sua virtù. Quell’uomo, mito di se stesso, diventò ben presto un viandante in miseria  e, per dare un senso alla sua condizione, continuò ad illudersi. Non gli apparteneva il lamento, ma l’orgoglio di essere perfetto.

Di lui non riconobbi mai i suoi occhi!

Col passar del tempo il suo sguardo diventò assente, straziato dall’angosciante silenzio che iniziò a popolare la sua mente. Sopravvisse qualche scheletrico dialogo con mia madre, raminghe parole tradite da un’estenuante apatia che lo assalì.

Continuavi a guardare i suoi occhi, Isaac, a scrutare quel soldato forestiero con l’armatura ormai allo sfascio e, più l’osservavi, più diventavi il peggiore inquisitore di te stesso. Ricordasti quel giorno in cui tradisti le radici della tua, della nostra discendenza. Una maledetta avidità tempestò il tuo sangue, abiurasti la tua amata filosofia, seppellisti le parole del grande Spinoza “L’amore è il mezzo attraverso il quale l’uomo può elevarsi al sommo bene” e combinasti il matrimonio di tua figlia Eugenia.

EugeniaGarsin e Flaminio Modigliani

Il tuo infallibile fiuto imprenditoriale riuscì a scovare il matrimonio perfetto per la tua figlia prediletta. Quella figlia che amavi, che riconoscevi come prolungamento della tua immagine, quella figlia che non fu nemmeno avvisata.

Per anni ti sentisti degno di questa vittoria. Tua figlia stava vivendo la grande ricchezza, la famiglia non sarebbe mai stata dilaniata dalla povertà. Filosofia e spirito affaristico, due opposti per te perfettamente conciliabili.

La tua proverbiale scaltrezza però non ti aveva concesso la capacità di raffigurare i tratti essenziali del tuo futuro, di  distaccarti da tutto ciò che avrebbe potuto provocare dolore, improvviso mutamento della tua anima.

Modigliani il mendicante di livorno

Vi fu un giorno in cui non ti sentisti più l’eroe del tuo racconto, l’eroe della tua vita e  non fu un giorno tempestato da luttuosi eventi, da minacce incombenti, fu un giorno qualunque, un giorno dell’ovvietà solcato dalla cadenza delle abitudini. Ma, quando l’ovvietà diventò silenzio, iniziasti a decifrare l’arrivo della solitudine, di una struggente solitudine, cruda e trasparente verso ciò che realmente era il tuo essere, il divenire della tua essenza. Il monologo della tua ragione fu inutile, le parole del tuo amato Nietzsche penetrarono la tua solitudine: “L’uomo non ha più il compito di trovare un senso già dato, ma quello di inventarlo…ciò che fa l’originalità di un uomo è che egli veda una cosa che tutti gli altri non vedono”. Ecco, iniziasti a vedermi, a scoprire il nostro destino, perché il nostro futuro avrebbe dettato le leggi di un tempo che sarebbe appartenuto solo a noi, al di là del tempo destinato agli uomini.

Ricordi, Isaac? “Cerco un’anima che mi somigli…frugo ogni angolo della terra…eppure non posso rimanere solo.” E con la mia nascita iniziasti a vivere la poesia della vita, quella poesia che trasmigrò nello sguardo del piccolo Modì. Io per te ero l’essenza di una nuova umanità. Iniziasti a dipingere la  vita con i colori delle mie scoperte. Vivevi narrando la luce del mio sguardo, il sorriso prezioso del mio sonno notturno. L’orologio del giorno era scandito dalla continua permanenza della mia felicità nel creare le mie prime parole, nel sentirmi superbamente maestoso mentre i miei piccoli piedi e tutto il mio corpo raggiungeva il mio primo cammino.

Tu esistevi perché io semplicemente vivevo.

Eri convinto, Isaac…il piccolo Modì era stato investito dal potere di risvegliare nel tuo sguardo il mistero della felicità! Osservavi i miei occhi, li scrutavi avidamente per scoprire la mia anima divina. Volevi che i tuoi occhi discendessero dalle mie conquiste. Quante volte sei nato nel luogo senza tempo delle mie scoperte? Desideravi solo vivere e morire nell’origine del mio sguardo.

Ma la felicità è un angelo dal volto serio che osservava i passi stanchi di mio padre, il suo sguardo lapidato dalla disperazione…occhi senza pupilla, occhi nell’ombra nera che non arrancavano più nella vana illusione che sarebbe giunto il momento di illuminare il suo spirito affaristico. Aveva ucciso i suoi occhi, aveva ucciso la sua vita in una delirante indifferenza. Mio padre non desiderava nemmeno morire perché il fascino della morte esiste solo per i coraggiosi. Ma ora dimmi, Isaac…li vedi? Quei corvi maledetti, mascherati con un rivoltante camice bianco, si stanno disputando la mia morte e, mentre piango fiumi di poesie, fanno stridere i loro artigli su dannati fogli bianchi e con la loro irosa scrittura traducono la mia voglia di vivere in fosche formule magiche. La sentenza è chiara e precisa: “Il grande Modigliani è un povero derelitto annientato dai suoi stessi deliri.” Poveri illusi! Noi due abbiamo dei diritti diversi dagli altri! Possediamo il diritto di abbattere tutto ciò che è vecchio e putrido perché il destino ci appartiene ancora…diglielo, Isaac! Nessuno potrà imprigionare la mia anima divina in questo corpo debole e fragile. E, per demolire la loro sentenza, migrano come rondini i miei lineamenti nel passo azzurro della mia infanzia. Restituisco il sole alla mia memoria, ritorna il piccolo Modì dentro alle tue parole, dentro al tempio della bellezza.

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Non andartene via un’altra volta, noi sentiamo e sappiamo di essere eterni.

Ricordi, Isaac? “L’uomo è un mondo che a volte vale mondi interi”.

Quei mondi erano i nostri dialoghi, le parole della tua splendida amata filosofia, con le quali salutavi il mio passo gioioso. Fissavo su piccoli fogli bianchi stelle dei miei pensieri, i miei disegni, nel desiderio che il ritmo crescente delle mie conquiste avrebbe potuto realizzarsi solo osservando il tuo sguardo colmo di ammirazione per il tuo piccolo aristocratico filosofo di soli otto anni. Per i tuoi occhi, il tuo piccolo filosofo, possedeva una scrittura misteriosa troppo perfetta per appartenere a due piccole mani nate dalla purezza dell’infanzia.

Oh Isaac…Come ti ascoltavo…

“Sai piccolo Modì, se ti vedesse Omero cosa penserebbe di te? “Tu non tocchi il confine della fine, dal tuo riscatto nascono nuove vite” Oh…non dirmi che non ci credi? Nella selva degli esseri umani gli Dei hanno riconosciuto solo le tue mani, il tuo occhio, per consacrarlo all’unica verità: l’arte come mutamento di un sapere eterno. Sarai tu, mio piccolo filosofo, che ti prenderai cura di noi, ma prima devi prenderti cura della tua anima con le azioni virtuose della tua arte.”

“Io non voglio assomigliare a nessuno!”

“Oh no Modì…sollevati da questa preoccupazione, se gli dei ti hanno scelto, l’hanno fatto per l’originalità del tuo genio creativo.”

Le tue parole eccitarono il moto delle mie scoperte. Osservavo il tuo sguardo tenero e malinconico e, incalzato dall’intensità del tuo sentimento, feci scorrere le mie piccole mani su un trepidante foglio bianco. Ero preda di un’energia fortissima, ricca e feconda, che precedeva la gioia nel vivere il tuo sguardo. Per la prima volta avevo dipinto il tuo ritratto, realizzato la mia prima vera opera ed ero pronto ad ascoltare la tua febbrile dolcezza: “Possiedi una capacità divina perché sai leggere l’anima delle persone, osservando i loro volti scopri le loro storie e il tuo atto creativo ti condurrà alla profonda conoscenza dell’anima. Nel tempo della tua vita, a volte, sarai lento nel creare, avrai periodi nei quali proseguirai il racconto dei tuoi occhi senza dipingere, qualcuno lo considera una forma di pigrizia, ma non preoccuparti perché la ricerca ha bisogno di attesa.”

Ti mostrai di nuovo il tuo ritratto: “Mi sto prendendo cura di te, nonno.”

Il tuo sorriso mi porse ancora le tue parole: “Quale destino in questo ritratto hai riservato alla mancanza dei miei occhi?”

“Quando conoscerò finalmente la tua anima, disegnerò anche i tuoi occhi” fu l’unica mia risposta.

Ma quando li dipingerò, Isaac? Nel tempo che precede la mia morte?

Sono ancora per te un’individualità assoluta?

Con le tue parole avevi realizzato la nostra Accademia della vita. I nostri dialoghi erano una straordinaria architettura metafisica per creare la verità sulla vita, sulla bellezza e sull’arte. Non è questo lo scopo del vero amore? Esaltare la volontà secondo il proprio indirizzo e rivelarci l’uno con l’altro nell’estasi della bellezza affinché l’opera della vita raggiunga il suo completo stato di gestazione? Prima della nostra quotidiana ricerca espressiva ascoltavo la tua dolce richiesta che avevamo chiamato il semplice saluto alla vita.

“Mio piccolo filosofo, mandami dal tuo cuore un soffio di vita poiché tu sei stato creato, credimi, per la vita intensa e per la gioia!”

I miei soffi di vita erano rappresentati  dai miei disegni accompagnati dalle mie parole: “Allora nonno, il mio unico dovere è di salvare i nostri sogni!”

“Mio piccolo Modì, il raggiungimento della bellezza ti potrà condurre a momenti   dolorosi, ma credimi…creano i più bei sforzi dell’anima. Ogni ostacolo superato segna un accrescimento della tua volontà.”

“Quindi una nuova conquista…”

“Anche nel dolore vivrai il rinnovamento della tua aspirazione. Il dolore non può forse diventare uno sprone perché ognuno possa rigenerarsi?”

” Il mio unico desiderio è di vivere sempre con te…finché io disegno, tu vivrai sempre. La mia sarà sempre una creazione gioiosa, non credi?”

“Tu sei e sarai un’individualità assoluta e il dono della tua intelligenza non deve mai farti perdere la spontaneità.”

Vivevi nel culto sacro per tutto ciò che poteva esaltare la mia intelligenza al suo massimo potere creativo perché l’uomo che dalla sua energia non sa continuamente sprigionare nuovi desideri per abbattere tutto quel che è di vecchio e di putrido restato, non è un uomo, è semplicemente un inutile speziale.

Mi vedevi crescere in modo stupefacente e quando pensavi al nostro futuro attingevi dal tuo piccolo Modì un conforto e una speranza sempre più grande. Il nostro unico e indiscutibile sentimento era il sentimento dell’esistenza. Quel sentimento che mi faceva provare un’esplosione di gioia quando contemplavo le tue parole e si rinnovava la stagione delle scoperte durante le nostre conversazioni. Più scoprivo la tua anima, più si arricchiva il mio talento in ritratti perfetti, formati da linee sublimi.

disegno modigliani 5

Ma purtroppo  quelle linee perfette vacillavano per poi arrestarsi improvvisamente  di fronte al volto perduto di mio padre travolto dalla sua rovina, testimone di un destino avverso.  Una sorte malevola gli aveva precluso ogni commercio, anche se fiamme d’orgoglio e di rivalsa  continuavano a tempestare i suoi occhi. Prestavo ascolto all’affanno del suo passo, ad  un suo lungo e amarissimo respiro, il tentennamento della testa, tutti segnali della sua ostilità verso i miei disegni, considerati pura futilità, non destinati al successo. Ascoltavo tristemente  il suo appello nel volermi mettere in guardia dalla tragicità dell’essere pittori: “Né gioia, né denaro, ricevono questi poveri visionari!” parole che sfoderava con rabbia, prima di annunciare l’unica grazia beatificante che mi spettava nell’essere suo figlio. Per mio padre il mio destino era già scritto nello spirito affaristico della famiglia Modigliani.

Mio padre era realmente capace di sopportare la vita ricorrendo a menzogne?

Odiavo il suo vano orgoglio, ma potevo detestare il suo essere infelice?

Sarei riuscito trasformare con il mio disegno la sua tristezza scoprendo qual era il suo vero volto?

Anche i suoi occhi erano stati gli occhi di un bambino inebriati dalla risata cristallina di giochi innocenti, in cui tutto è trepidante attesa di nuove conquiste.

Per la prima volta, prima di dipingere, era la mia mente che componeva l’immagine. Il destino del mio nuovo ritratto viveva non più nel mio istinto immediato, ma solo nel cammino della mia fantasia.

Mi trovai in una nuova terra dal cielo tessuto di luce.

Il calendario del tempo contava solo giorni d’amore e la voce di mio padre bambino mi invitò a dimorare nella sua anima. Scoprimmo il mare, il cielo, le forme fantastiche delle nuvole, le nostre corse sfrenate verso traguardi desiderati. Non avevo più bisogno di scrutarlo di nascosto, finalmente avrei saputo creare il suo ritratto, il mio tema d’amore.

“Dimmi che non ci perderemo mai…”

Sentivo che per creare la mia opera avevo il desiderio struggente della sua risposta…unica, certa…assoluta!

Ma improvvisamente attorno a me più nulla…nessuno.

Lo cercai nel tempo destinato all’ignoto.

Stradina toscana

S’incenerì il foglio destinato al ritratto dentro al fuoco della mia rabbia, ma non rimasi solo.

Osservai il tuo volto, Isaac…socchiudesti gli occhi e scoprii la tua paura. Il silenzio divenne torbido intriso dalla tua inquietudine. Incominciasti a dipingere nella tua mente una sorte di premonizione di ciò che la vita mi avrebbe riservato: “Dolore ed estasi, sensualità e genio, avrebbero percorso la vita del piccolo Modì?”

ritratto di Maud Abrantes

Improvvisamente il tuo sguardo incontrò il sorriso di mia madre pronto ad acquietare la tua paura. Per mia madre, un giorno, il mio nome sarebbe stato nel tempio dei grandi maestri e devota era la mia promessa: “Vedrai che un giorno ti darò più dei miei fratelli.” Anche lei era d’accordo con te nel porgermi in dono la lettura dello splendore di Dante: al genio del piccolo Modì era abolita la schiavitù letteraria per bambini.

“Cosa vuoi scoprire con le tue letture?” era la domanda ricorrente di mia madre.

“Semplice… quello che c’è in me.”

“La tua è un’impresa per te stesso, tua madre l’impresa  la compie verso gl’altri.”

L’impresa di mia madre consisteva nel aver rivoluzionato la casa e averla trasformata in una scuola. Come ti assomigliava, Isaac… aveva un orrore religioso delle menzogne anche di quelle banali che riescono a semplificare le vite altrui, ma non la sua. Mi raccontavi che possedeva, fin da piccola, un amore smodato per lo studio e la lettura, d’altra parte la precocità non è un tratto distintivo della famiglia Garsin? Anche la piccola Eugenia quindi, mia madre, aveva vissuto le tue lezioni universali, il tuo motto da cui scaturiva ogni evento della tua vita: “La cultura è la merce di scambio migliore!”

Il mio passatempo preferito? La lettura della storia di Francia di Durn e declamare versi del magnifico Dante che recitavo con una sorprendente memoria. Entrambi abbiamo ereditato da te, l’amore per la bellezza, la passione e il mistero della vita. Penetravo quel mistero con i miei disegni, mia madre, invece, con parole alate nella narrazione della storia quotidiana della nostra famiglia attraverso piccoli eventi, tracce del nostro essere che annotava nel suo diario. La sua scrittura rappresentava un percorso meraviglioso di lettura e interpretazione della nostra vita quotidiana. La prima pagina del suo diario era formata da un’orchestra di parole atte a svelare il suo stupore di fronte al mio precoce talento “Questo mio  figlio disegna tutto il giorno e tutti i giorni con un ardore sostenuto che mi stupisce e m’incanta.”

L’insegnamento di mia madre rappresentò una profonda partecipazione per la storia dell’anima di ciascun individuo. “Insegnare è credere in se stessi” queste parole erano la forma incorruttibile della sua esistenza. In breve tempo fondò una scuola sperimentale per i bambini, anche quelli in cui lo sguardo pellegrinava alla ricerca di una misera consolazione alla vita. Mia madre non li consolò…mia madre unicamente li amò.

Modigliani a scuola 8

Ogni giorno la casa si trasformava in una galleria di inquiete immagini: miseri volti stavano smarrendo il candore dell’innocenza tipico dell’infanzia. Apparivano vecchi, insopportabilmente vecchi, e devastante era il contrasto tra il loro sguardo e i loro movimenti dai tratti ancora sanguigni. Ma chi aveva propagato la sua insaziabile sete di vendetta infierendo su quei poveri volti? Era la domanda che assillava la mia mente e, in quel fermento di immagini, ritornavano le parole del mio amato cavaliere. Ti vedevo, Isaac, presentarti a cavallo, il cui titolo ti era stato conferito dalla coppia dell’amore e della sapienza, da quell’unione perfetta designata con il nome di filosofia. Accompagnato dalla civetta di Minerva, simbolo della filosofia, il tuo sguardo mi esortava a vivere narrandomi l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo.

la scuola di Atene

“Unico e comune il mondo per coloro che sono svegli; agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli allo stesso modo di quando non sono coscienti di quel che fanno dormendo. Una sola cosa  bramano, preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più, invece, pensano solo a saziarsi come bestie.” La mia brillante memoria mi stava riconducendo a quei frammenti di vita che dedicavi al tuo leggendario bambino filosofo. Quel frammento di vita possedeva il nome del filosofo Eraclito. Il tuo piccolo Modì non apparteneva certo ai poveri dormienti! Il suo sguardo sapeva andare oltre le apparenze senza mai dimenticare che il carattere di un uomo è il suo destino. Con i tuoi frammenti di vita iniziai nuovi ritratti dei loro volti, estirpandoli dalla miseria. Rimodellai l’anatomia dei loro corpi, cesellai i loro movimenti in una posa vittoriosa. Dalla materia della loro vita ricavai una nuova, scultorea bellezza. Poi ricomposi con solennità il sole di Eraclito dentro alle sue parole: “Non solo il sole è nuovo ogni giorno, ma è sempre nuovo di continuo”.

Modigliani bambina in azzurro

Ma cos’è che ti affascinava di me, Isaac, solo il mio talento o la mia capacità di indovinare i tuoi pensieri, i tuoi desideri, i tuoi sogni? Abitavo la tua anima, ne esploravo il paesaggio nel silenzio che si rinnovava alla vita. Quello che cercavo non era la realtà, né l’irrealtà, ma il mistero di questo nostro incontro… il mistero del tuo sguardo. Ero libero, Isaac… libero perché l’eternità della tua vita mi apparteneva. E più scoprivo i tuoi pensieri, più vivevo la creatività della vita. Me lo insegnasti tu, ricordi?  “Gli uomini che desiderano conoscere il mondo devono imparare a conoscerlo nei particolari” il mio mondo eri tu, eri l’unico mio amico d’infanzia. Diventò la sfida nel superare me stesso il tratto dominante del mio carattere, ma riuscivo a modellare il mio stile selvaggio con uno straordinario equilibrio e misura. Sai, Isaac, sono convinto che fin d’allora la mia arte fosse investita dal dono della sacralità. La mia natura divina possedeva una potenza assoluta e illimitata, quella potenza che mi avrebbe permesso di scoprire continuamente la tua anima e poter finalmente rappresentare i tuoi occhi.

“Il destino di un uomo è scritto nei suoi occhi” perché mi destinasti questa verità?

Anche quel giorno aspettavi il tuo piccolo Modì. Avremmo cantato la nostra ballata sulla spiaggia di Livorno, per poi proseguire le nostre scoperte: vere sorgenti d’amore. I nostri sguardi avrebbero vissuto le parole di Rimbaud “Che cos’è l’eternità se non il mare mischiato col sole”… Corsi per mostrarti il mio ultimo disegno: il mio originale autoritratto con due occhi distanti tra di loro, con un occhio avrei guardato il mondo, con l’altro me stesso.

Oh, Isaac, avrei mai raggiunto la tua nobiltà spirituale?

Improvvisamente una strana inquietudine sguinzagliò tra i miei pensieri. Erano giorni che continuavi a leggere i diari di Michelangelo, a soffermare il tuo sguardo su queste sue parole “Desti a me quest’anima divina e poi la imprigionasti in un corpo debole e fragile, com’è triste viverci dentro.” Il mio occhio, in quei momenti, non era più in grado di leggere i tuoi pensieri. Avevi forse deciso di stabilire un confine oltre il quale io non potevo viverti? Ma il nostro non era certo un amore di lontananza.

Scrutai il tuo sguardo rivolto verso l’alto. “Perché?”, fu l’unica parola che riuscii a scovare nelle tue labbra; poi fu questione di attimi e mentre ascoltavi la musica del mio passo abbandonasti qualsiasi domanda e iniziasti a soverchiare il dramma del destino nell’angoscia della tua fine. Nessun rallentamento dei movimenti, nessun presagio di stanchezza…ritornò la tua nobile figura mentre il tuo volto, fiero e coraggioso, salutò il mio arrivo perché assieme avremo inventato il senso del mondo. La maledetta sentenza che avrebbe travolto qualsiasi individuo non ti apparteneva! Vi erano due strade che la vita ti concedeva: l’abbandono al sopraggiungere della coscienza della fine oppure vivere per il debito d’onore che dovevi alla vita. Quel debito era rappresentato dalla mia nascita. Decidesti di vivere i tuoi giorni ancora con le parole di Schopenhauer: “Ogni uomo vale per ciò che si manifesta nei suoi comportamenti. In ciò che uno è risiede il suo valore.” Lo scopo naturale della tua vita continuava ad essere la mia felicità. Ora il tuo amore per la filosofia assumeva una valenza ben precisa: indossare le vesti di Epicuro per liberarti dalla paura della morte dimostrando che essa non è nulla per l’uomo dal momento che quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte non ci siamo noi. Avresti continuato a dedicare i tuoi giorni laboriosi alle mie conquiste. Imposi a te stesso che le tue parole non avrebbero mai rappresentato il tuo destino. Non desideravi certo essere immortale, ma volevi solo invecchiare con il tuo piccolo Modì e ascoltare ogni giorno le sue parole: “Ogni giorno non diventi più vecchio, ma semplicemente più nuovo.” Ad un tratto il tuo sguardo si crogiolò al sole, si sposò il tuo volto con l’aria e il tuo sorriso svelò il tuo coraggio: la tua prova d’amore. Oh Isaac…come ritornano le parole di Nietzche “E’ prerogativa della grandezza recare grande felicità con piccoli doni.” Io li attendevo ancora, e quel giorno iniziai ad apprendere la natura del mio destino ascoltando il tuo nuovo saluto: “Loda il tuo pensiero, piccolo Modì…allarga i tuoi meriti…d’ora in poi non avrai più bisogno di Isaac. Ma prima devi ascoltare questo racconto che legherà per sempre le nostre esistenze. Ricordi mio filosofo? L’uomo è un mondo che a volte vale mondi interi. E’ giunto il momento di farti scoprire la vera lezione di felicità…finalmente potrai dipingere i miei occhi.”

“Oh nonno….conoscerò la tua anima profondamente?”

“Ma vi è una cosa che faremo assieme per ascoltare questa storia…”

“Cosa?”

“La vivremo con gli occhi chiusi.”

“Con gli occhi chiusi? Ma per quanto tempo?”

“Non preoccuparti…non avremo paura del buio perché ci delizierà. C’è un sogno che ci sta sognando! Il sogno di Diogene di regalarci il perché della nostra esistenza, il motivo della vera felicità.”

Diogene raffigurato da Raffaello Sanzio

“La cosa più bella è la speranza”, ma poteva Diogene ancora credere in queste sue parole? Un filosofo, anzi l’unico filosofo in grado di ricercare l’ uomo autentico e di essere cittadino del mondo si trovava, al pari di una bestia, al mercato degli schiavi di Creta. Rapito dai pirati mentre si recava in mare a Egina, ora si trovava messo in vendita e l’affare per il banditore doveva risolversi velocemente. Lui, il grande Diogene, era sempre stato terribile nello sconfessare la stupidità: l’istruzione proposta da Platone era semplicemente la distruzione, le gare dionisiache erano solo per la meraviglia degli stupidi. Sarebbe stato così anche questa volta? E a chi gli rinfacciava di aver voluto stravolgere i valori della società, era solito rispondere: “Fu al tempo in cui ero quel che tu sei adesso. Tu però non sarai mai quel che sono.” E oggi, cosa avrebbe risposto a chi avrebbe deriso la sua condizione? No! Schiavo non era! Non lo sarebbe mai stato anche se il banditore era pronto a venderlo, esaminando l’integrità, le fattezze del suo corpo mentre si divertiva a beffarlo declamando le leggi ateniesi di Gortina sulla schiavitù.

“Pensa un po’…hanno scritto delle leggi sulla schiavitù anche per voi…i tuoi figli spetteranno al tuo padrone!”

“Non preoccuparti, le mie condizioni di vita continueranno a dipendere solo da me e i miei figli saranno la mia vittoria!”

“E cosa sai  fare?” gli chiese il banditore in tono sarcastico.

“Comandare gli uomini! Ecco l’annuncio che devi dare: c’è qualcuno che vuole procurarsi un padrone? L’uomo più ricco è chi è sufficiente a se stesso…io non sarò mai uno schiavo, ma un padrone !” Poi indicò un Corinzio molto elegante di nome Seniade e disse al banditore: “Vendimi a lui, ha bisogno di un padrone!”

Seniade incuriosito si avvicinò a Diogene che continuò a declamare la sua vera natura: “Ho tutto quel che si trova nella tragedia: povero ed errante, vivo alla giornata ma qualunque sia la mia condizione per la felicità sono pronto a lottare perfino contro il re dei Persiani.”

“Ti porto a casa mia, ho dei figli  molto educati e sarai loro precettore.”

“Ma allora perché dovrebbero aver bisogno di me?”

“Perché ho una figlia giovane che da tempo è stata colpita da una strana sventura…un indovino mi ha paventato l’idea che sia un artificio degli Dei per farmi conoscere la sua reale natura. Tu sarai il suo maestro…dovrai comprenderla.”

“O forse aiutarti a comprenderla! Vedi mio Seniade che il tuo schiavo, che in realtà è il tuo padrone, ha già capito la tua debolezza di padre…non dirmi che desideravi una figlia diversa. Credimi, non è insensato e inutile se tua figlia si preoccupa di esercitare l’anima. Vi è un principio indubitabile alla base di tutto: il principio della vita.”

Ma che schiavo aveva appena comprato, pensò Seniade. Un indovino? Uno scherzo del destino?

“Comunque tu la devi educare!”

“Educare i giovani è come per un ceramista modellare l’argilla, ma ora fermati e porta a desinare il tuo maestro.”

Giunto a casa di Seniade, Diogene fu accolto da Adone, il prediletto figlio maschio. Ma perché proprio questo nome? Si chiese Diogene.

Nelle sfere degli Dei, Adone nacque con una bellezza così trionfante che la stessa Afrodite si innamorò pazzamente di lui. Ma gli Dei, con l’Adone di Seniade, erano stati alquanto avari con la dote della bellezza! Il piccolo corpo smilzo non era certo adatto a rappresentare la sua polis, il pallore del suo volto rasentava il pallore della malattia; solo i due occhi incredibilmente grandi guizzavano di ingegno. Di lui Seniade diceva che riusciva a vedere le cose con estrema lucidità, raziocinio.

“E’ un ragazzo che ha voglia di fare fortuna!” ripeteva Seniade. E agli studi filosofici preferiva di buon grado i calcoli per l’acquisto delle merci. Era sicuro! Sarebbe diventato un ottimo mercante. Come si dilungava Seniade nel raccontare a Diogene che quel figlio possedeva l’arte del saper operare per raggiungere il suo scopo! E la figlia? Quale scherno beffardo si erano divertiti gli Dei fin dalla sua nascita? Li maledisse per lungo tempo. Come si poteva concedere alla madre solo il tempo di pronunciare il nome di sua figlia “Iris”, per poi mandare le parche per forgiare il suo destino e recidere il filo della vita?

Strudwick a golden thread

Quella figlia nacque dentro la morte di sua madre! Forse per questo era così strana, poco eloquente con il criterio della razionalità. Certo, aveva ben poco da disquisire Socrate “La verità si trova all’interno di ogni uomo”… in sua figlia quale verità si poteva trovare? Viveva libera, senza preoccupazioni. Qualcuno la chiamava “la randagia”, ma le movenze erano sempre eleganti, degne del portamento di sua madre.

“Quando tua figlia avrà l’onore di conoscere il suo maestro?” chiese Diogene a Seniade

“E chi lo sa? Domani? Nell’avvenire di un ennesimo giorno di un tempo stabilito solo da lei? E, alla mia richiesta di conoscere il motivo della sua fuga, risponde che va a ricercare il significato nascosto delle piccole cose. Lei lo chiama il sentimento dell’esistenza. Che sia stata falciata dalla follia?”

Diogene non pronunciò nessuna risposta.

“L’hai trovata? ” Chiese Seniade il giorno dopo.

“Non è ancora arrivato il momento propizio! Non preoccuparti…Diogene sa attendere. La troverò nel tempo che prevede il cambiamento.”

“Quale?”

“Il cambiamento dell’uomo nei confronti della felicità. Ti sei mai chiesto che cosa sia realmente la felicità? la bramosia di denaro è la madrepatria di tutti i mali. La vera ricchezza proviene dall’anima! Il tuo maestro possiede solo una bisaccia e come casa una botte.

Diogene che rompe il suo eculare

Gli Dei hanno concesso agli uomini facili mezzi di vita, ma hanno tolto dalla loro vista la vera ricerca della felicità. Quanti uomini hanno perduto il senso e il perché delle cose in una società falsa e artificiosa dove l’unico strumento di rivalsa è la sopraffazione? Io, Diogene, lodo tutto ciò che è astensione dal compromesso sociale, rifiuto delle consuetudini che diventano pregiudizi…pura ipocrisia: maschere di uomini mai sinceri! L’oracolo di Delfi mi ha ingiunto di ricondurre gli uomini alla loro vera natura, ma non ha fatto nessun cenno a tua figlia.”

“Perché?”

“Lo scoprirai più avanti…ora smaschera i tuoi pregiudizi e ricorda solo la nascita di tua figlia. La sua nascita appartiene al mondo!”

“Al mondo? Ma se la chiamano la randagia!”

“Non ascoltarli, Seniade…ascolta solo il tuo cuore.”

Per la prima volta Seniade scoprì il tempo della nascita di sua figlia dentro il tempo della sua vita. Navigò il pianto al richiamo dell’esistenza di Iris…Sarebbe ritornata?”

Il volto di sua figlia possedeva, come quello di sua madre, l’audace bellezza di chi sa che non sarebbe stata mai dimenticata. Iris sentiva di essere un mosaico di volti amati e non aveva nessun dubbio sull’importanza vitale di raccontare tutte le sue parti complementari. Aveva compreso che vi è un’intima essenza che coinvolge uomini e donne: l’io nella molteplicità degli altri. E di una cosa era certa: era venuta al mondo per vivere il sentimento dell’esistenza. Era una dolce promessa che negli anni dell’infanzia aveva dedicato al volto di sua madre rimasto solo nei racconti del padre, ma anche nella sua rabbia di non poterla rappresentare. Nel gioco complice di due piccole mani laboriose, mancava il tempo reale dello sguardo rivolto verso sua madre. Ma niente nasce dal caso: avrebbe trasformato il suo dolore nel ritmo della scoperta dell’autentica bellezza, cercandola nel significato nascosto delle piccole cose. E tutto nel perfetto silenzio come la morte che aveva reso silente il battito di sua madre. Rare erano le parole che offriva ai passanti, pronti a schernirla mentre rimaneva in estasi per ore e ore a contemplare un fiore o ad ammirare l’affascinante fisionomia delle nuvole. Allo scherno rispondeva con un sorriso o con l’inizio di una danza che lei chiamava la danza della felicità. Il fiore, le nuvole, la meravigliosa diversità dei fili d’erba seminati nel verde prato, rappresentavano per Iris la seduzione eterna della vita, la seduzione nascosta nel significato delle piccole cose. Il suo occhio si prodigava alla scoperta continua della bellezza nel sentimento puro dell’esistenza.

sir lawrence Alma Tadema donna greca

Alla morte di sua madre, gli Dei le avevano concesso il segreto della felicità! Ma vi fu un giorno, stranamente inquieto, in cui emersero tra i suoi pensieri le parole di Eraclito “Per quanto tu cammini non potrai mai raggiungere i confini dell’anima tanto profonda è la sua vera essenza” e un terribile dubbio l’assalì: “Potrebbe il mio sguardo far cadere la bellezza nell’oblio dell’ovvietà?” Per giorni Iris visse nella paura dell’indifferenza e vagò tra le strade di Creta. Forse un amico avrebbe sopportato anche lui questo peso o forse avrebbe cancellato per sempre questa sua paura. Di Iris si persero le tracce, ma Diogene sapeva che l’avrebbe trovata. Tutto appartiene agli Dei, i beni degli amici sono comuni, ma a chi apparteneva Iris? Seniade, il padre, invecchiò precocemente e il suo volto si coprì di un’impassibile apatia verso i sentimenti. La sua mente fu solo governata dall’idea di nuovi affari da intraprendere con il figlio rimasto, ma al mattino, al risveglio, un’ira funesta lo pervadeva e sopprimeva qualsiasi principio del buon comportamento, perché s’abbandonava ad un lungo e solitario sproloquio contro gli Dei, inveendo contro la sorte che gli avevano inflitto con cupa tenacia nel rendere invisibile alla vita presente anche l’immagine reale di Iris. Nessuna impronta dei suoi passi, nessun suono della sua voce, solo i passi di Diogene di ritorno dal suo ostinato viaggio: un rito giornaliero con la sua lanterna, nel suo delirio: “Ricerco l’uomo… l’uomo libero!”

Diogene cerca l'uomo di Joahn Tischbein

Fuggevole doveva comunque rimanere la malinconia, si placava la rabbia mentre si fomentava in lui lo spirito degli affari. Doveva pur essere nato per dimostrare la sua grandiosità! E quel giorno ordinò a Diogene di recarsi al mercato degli schiavi ad Atene.

“E’ assai lungo il viaggio, ma fiuta l’affare Diogene e che possegga perseveranza e qualche dote in più.”

“Magari straordinaria! E chi lo sa?”

Di una cosa era certo Diogene, se avesse trovato uno schiavo addormentato non l’avrebbe svegliato perché stava sognando la libertà.

E lo vide quel piccolo essere sull’ultimo putrido palco girevole. Miseramente nuda, sembrava addormentata in uno strano sonno mentre il banditore declamava le sue virtù. Lavoro, disciplina…erano questi i principi sui quali si sarebbe basata la sua vita da schiava, ma possedeva anche una dote alquanto divinatoria: nel destino avverso della sua cecità era in grado di riprodurre fedelmente ritratti di uomini e donne, paesaggi densi di particolari, ma non dimenticò di elencare i suoi difetti: ribelle e ostinata era riuscita a fuggire dal padrone; riuscì a trovare asilo nel santuario delle Erinni, dee della vendetta. Fu questione di pochi giorni…venne ripresa e marchiata come una bestia. Bisognava eliminarla per il suo temperamento oltraggioso? No… era necessario solo rivenderla in tempi rapidi. La somma per l’acquisto doveva essere ragguardevole: sapeva dipingere perfettamente anche se gl’occhi erano scarnificati dal buio della cecità. “Ma se è cieca, com’è possibile che il suo occhio, le sue mani, possano aderire perfettamente alla realtà?”  si chiedeva il nutrito numero di persone che ascoltava il banditore. E più il banditore la metteva alla prova, più i ritratti erano perfetti.

“Cieca per chi?” iniziò a declamare Diogene.

“Cieca per gl’altri, ma non certo per se stessa! Vive e vede il segreto della sua esistenza. Tutto appartiene agli Dei, ma lei appartiene solo a se stessa.” Finalmente era giunto il tempo libero del cambiamento dell’uomo verso la felicità. Iris la schiava, Iris la randagia, sarebbe ritornata a casa.

“So chi sei” disse Iris, mentre sicura di sé si destreggiava nel buio della notte.

“Provieni dalle sfere celesti, ma anche tu sei stato venduto come schiavo. Dimori a casa di mio padre, ma in realtà lo schiavo è lui. Schiavo delle sue paure nascoste, della sua continua insoddisfazione verso la vita. Nulla si può anteporre alla libertà di essere felici!” Com’era bella, Iris! La schiavitù non aveva eliminato nessuna traccia della sua autentica bellezza, continuò ad ascoltarla con gli occhi chiusi per comprenderla profondamente ed avvicinarsi al miracolo della sua esistenza.

“L’uomo ha complicato ogni semplice dono degli Dei ricercando una vana felicità. Ma tu sei un uomo buono e quindi immagine degli Dei.”

“Hai mai chiesto a Platone cosa pensa di me? Per lui sono un Socrate impazzito! Come casa ho una botte, cammino scalzo nella neve e, se dagli altri voglio apprendere qualcosa, è solo una lezione di semplicità! Ma dimmi un po’…come hai fatto a mantenere la tua felicità? Il sentimento dell’esistenza? La ricchezza proviene dall’anima, io, Diogene non desidero nulla se non ascoltarti.”

“Anche tu desideri il dono dell’amicizia! Cosa si vuole consumare per la saggezza dello spirito al fine di distinguere cos’è meglio per la vita? Vivo di bellezza e la trovo nel significato nascosto delle piccole cose. E non devi mai permettere a te stesso che la bellezza possa cadere nell’oblio dell’ovvietà. Questa paura mi assalì per mesi e gli Dei mi condannarono ulteriormente strappandomi il mio sguardo per farlo sprofondare nell’abisso della cecità. Dopo l’atroce disperazione scoprii di possedere uno sguardo interiore, quello sguardo che mi permette di continuare a vivere il mondo e di rappresentarlo fedelmente con l’arte laboriosa delle mie mani. Trovai me stessa perché penetrai nella vita più profondamente di quanto non avessi fatto fino ad allora. Un giorno ad un passante che s’incantò di fronte alla mia opera, gli indicai la via della felicità anche dentro alla mia cecità, queste furono le mie parole: “Li vedi i miei occhi ciechi? Ti sei mai chiesto come posso vivere, qual è la mia condizione? Ecco! Ora prova a chiudere gli occhi per un tempo che non possiede la parola fine, perché la condizione del buio per me sarà senza risoluzione. Dimmi un po’…quante bellezze ti mancano? Sai…io in realtà vedo ancora! Sono i miei ricordi che si trasformano nel mio presente. Ma se il mio sguardo non avesse mai amato così tanto non potrei più vivere e rivedere la bellezza.”

Ora dimmi, Diogene… ci si può ancora stupire dell’attimo misterioso della nostra esistenza?”

Aprì gli occhi, Diogene…aveva desiderato anche lui penetrare il mistero dell’esistenza di Iris in un buio trasformato in colori. E il dono, questa volta, era solo per lei: “Tu possiedi l’universo della saggezza, questa lanterna ora è tua. Non ho più bisogno di cercare l’uomo libero…la libertà è nei tuoi occhi…ciechi per chi?”

Passarono i giorni e un’intima amicizia sorse tra loro due. Per Diogene non furono più inutili gli studi di musica, geometria, astronomia…vi era una musica del cielo in una geometria perfetta che lo stava conducendo a scoprire e a vivere il vero sentimento dell’esistenza. E negli attimi prima di morire, nell’età della longeva memoria che appartiene ai vecchi, Diogene pronunciò queste parole: “Non ho conosciuto in Grecia uomini virtuosi, ma solo una donna capace di vivere e immaginare all’infinito.”

quadro di Maurice Quentinde

Oh Isaac…ti avevo ascoltato per ore, ma attendevo le tue parole per aprire i miei occhi.

“Apri gl’occhi, piccolo Modì e guarda…guarda come se fosse la prima volta!”

“Oh nonno…che meraviglia!”

Il tuo sguardo ritornò ad essere lo sguardo di un bambino. Nel destino inesorabile della tua fine avresti continuato a vivere il segreto della felicità e a presentarti al mondo con tutta la tua ricchezza. Ricordi le parole che donasti al tuo straordinario piccolo Modì qualche giorno prima della tua morte?

“Un giorno vedrai quello che io non vedo perché l’arte della pittura significa l’arte di comprendere la vita.”

Nel tempo della mia fine terrena vedo il tuo ritratto nel mistero della mia arte. Ci vuole coraggio per morire? Oh no, Isaac…E’ un dolce ritorno al ritratto della tua anima e grido la mia gioia perché finalmente dipingo i tuoi occhi, il segreto della mia esistenza.

Nell’ora mia eterna…

Sei la vita, Isaac

Marie Vorobieff omaggio agli amici di Montparnasse

Perché questo mio scritto?

E’ da tempo che osservo inquieti volti di uomini e donne, maschere teatranti alla ricerca di una falsa, ipocrita felicità dettata da uno strano slogan che incombe in questa delirante società:  “Più ricercherai la compiacenza degli altri, il loro lusingato sguardo, e più la felicità sarà un traguardo realmente raggiungibile!”

Ma quando giungerà a loro il momento di togliere la desolante maschera?

Io…sono così diversa!

Finché scrivo so che esisto per ricercare la vera felicità nel significato nascosto delle piccole cose.

Vi è un sentimento dell’esistenza che racconta il mio tempo quotidiano, e desidero solo penetrare nella vita più di quanto non ho fatto finora per vivere le parole del grande Amedeo Modigliani: “Il tuo unico dovere è salvare i tuoi sogni…Sono io lo stesso strumento delle potenti forze che nascono e muoiono in me.”

Per lunghi mesi mi documento seriamente su Amedeo Modigliani.

La ricerca è continua, caparbia, affinché attraverso questo mio scritto, in compagnia dei miei studi e della mia fantasia, io possa raccontare il sentimento dell’esistenza e vivere con queste sue parole “Voglio solo che la mia vita sia un torrente fertile che attraversa la terra con gioia!”

Perché amo…

In modo così diverso

Adriana Pitacco

Questo mio scritto è dedicato a Ferruccio, il nonno dei miei figli, perché nessuna parola potrà rappresentare il passo splendido della sua esistenza.

quadri postati: “Nudo dolente” di Amedeo Modigliani (1908) viene considerato il primo nudo conosciuto dipinto da Modigliani- “Ritratto di Spinoza” in un ritratto di Franz Wulfhagen (1664)- quadro “Trittico della miniera” di Constantin Meunier (1890-1900)- “Il mendicante di Livorno” di Modigliani (1909)- disegno di Modigliani- quadro “Stradina toscana” di Modigliani (1899)- “ritratto di Maud Abrantes” di Modigliani (1907-1908)- Diogene raffigurato da Raffaello nella Scuola di Atene (1509-1511)- “Bambina in azzurro” di Modigliani (1918) -“A golden Thread” di John Strudwich esposto per la prima volta alla Grosvenor Gallery nel 18885- “Una donna greca” di Sir Lawrence Alma Tadema (1869)- “Diogene cerca l’uomo” di Joahn Tischbein (1780)- “Diogene” di Maurice Quentin de la Tour copiato da un dipinto perduto di Peter Paul Rubens- “Omaggio agli amici di Montparnasse” di Marie Vorobieff (1918)

Musica: di Erik Satie “Gymnopedies n 1-3-4-5” pianista Anne Queffelec