C’è ancora tanto da fare…

segantini l'angelo della vita

Sentivo arrivare mio padre dal tintinnio della sua chincaglieria…accorreva mia madre a togliergli i vestiti che odoravano di rancido, di lunghe ore trascorse a racimolar del misero denaro, ad invitar la gente all’acquisto ridicolo di quell’inutile cianfrusaglia.

Mio padre… misero e ostinato venditore.

Mio padre…testardo e sognatore.

Ritornato a casa dal suo peregrinare, scommetteva con mia madre che, al prossimo mercato nel nuovo paese, la gente avrebbe litigato per acquistare il più possibile, per accaparrarsi la sua merce benedetta. Sì, benedetta dal buon Dio che presto lo avrebbe ricompensato delle sue fatiche.
E in quel giorno santificato dalla volontà divina, a casa non avrebbe riportato niente!
“Quel giorno”, ripeteva a se stesso, sarebbe arrivato da lì a poco. E gli affari avrebbero trasformato in oro, in pura luce, ogni angolo della nostra misera casa, compresa la sua “triste” chincaglieria.
Mia madre lo ascoltava pazientemente mentre osservava la bollitura delle scarne patate che giacevano nel pentolame; un soffio di intima tenerezza s’adagiava sul suo pallido volto, perché, da lì a poco, la nostra cena quasi inesistente avrebbe dissipato nei subdoli morsi della fame i tardi sogni di mio padre. E, con il lento sorseggiare di una smilza cena, si rinnovavano le parole di mio padre: “Avremmo dovuto essere in quattro…Insieme avremmo trionfato nei mercati…”
Osservavo il volto di mia madre, che io chiamavo teneramente “il mio petalo di rosa”, trasformarsi improvvisamente nella raffigurazione di una giovane donna febbricitante dal dolore, dall’immenso dolore, per poi perdersi nel labirinto di ricordi, di piccoli gesti quotidiani che rammentavano quel primo dolce sorriso che l’aveva attesa solo per sette mesi.
Solo mio padre sentiva il bisogno di pronunciare parole imprigionate in quei giorni luttuosi, in quel tempo devastante che non dimenticò mai!

Si può dimenticare la morte di un figlio?

Per mio padre avrei dovuto assomigliare a Ludovico, sforzarmi di riportare in vita il suo futuro, quel tempo che Ludovico, da primogenito, avrebbe esclusivamente condiviso con lui.
Ma gli Dei mi salvarono da questa assurda tortura. Non ebbi il tempo di conoscere Ludovico, di ingannare il dolore di mio padre falsificando il mio volto, i miei atteggiamenti con quelli del suo amato primogenito. Ludovico morì quando la sua venuta al mondo contava solo sette mesi.
Nacqui per orchestrare la mia esistenza come un’unica trionfante opera d’arte senza modelli da imitare, senza pianti da commiserare.
Non certo quelli di mio padre…
Perché niente avevamo in comune…
Nemmeno le lacrime che solcarono i nostri volti alla morte di mia madre.
Nei giorni angosciosi che travolsero mia madre, nel sudario del dolore, mai un lamento tradì il suo coraggio perché segrete dovevano rimanere le sue lacrime, mentre il suo coraggio diventava il suo lascito terreno.
Forse il suo dolore parlava con la voce degli Dei: “solo se avessi compreso il coraggio di mia madre, la sua forza, sarei riuscito a vivere la vita come un’unica opera d’arte”,
a trasformare anche la morte del suo dolcissimo sguardo.
Baciai mia madre, il mio delicatissimo petalo di rosa…
Trasformai il suo affannoso respiro nel suono di un silente ruscello, rivestii con il mio sguardo il suo esile corpo di leggerissime foglie, raccolsi i suoi capelli in ghirlande di fiori colorati…
Leggiadro diventò il suo corpo mentre mi chinavo a baciare il suo dolcissimo volto.
Gli Dei avevano concesso al mio sguardo, ai miei occhi, il dono di trasformare la presenza della morte nel canto rivelatore di un moto perpetuo, infinito.
E quel moto, quel canto si svelò nelle ultime parole del mio petalo di rosa: “Non piangere…Io ci sarò…ancora… Diventerò un uccello, padrone di un cielo speciale…
Questa volta ce la farò…Perché c’è ancora tanto da fare…”

segantini petalo di rosa

Negli attimi che precedettero la sua morte il suo sguardo chiedeva solo di poter custodire anche dopo la sua esistenza terrena, il mio sorriso, la mia venuta al mondo, il mio primo pianto affidato al respiro della nascita.
Soffocai ogni lacrima, perché arrendersi al dolore non mi avrebbe permesso di rivedere il mio “petalo di rosa”. Mia madre non stava morendo, stava semplicemente attendendo il momento di vivere il suo volo nella natura per portarmi con sé, senza il declino del tempo. Mia madre nella natura avrebbe trovato la sua eterna giovinezza.
Bastava solo attenderla mentre spalancavo la finestra e nell’intensità della forza del paesaggio penetrava nella mia anima la sua voce, il suo canto libero.
Uscivo, per seguire quel canto…
Nei miei passi fanciulleschi sostavo ad ascoltare la melodia del ruscello diventata la sua preghiera. Il suo canto, il suo volto, giungeva fino alle cime delle montagne, in quei meravigliosi acuti che componevano la visione di un’eterna melodia.
Trasformai le mie lacrime in gocce di pioggia, pronte a rendere fertile il nuovo segreto, quel dono che gli Dei avevano concesso alla mia anima. “Avrei ritrovato mia madre in ogni voce della natura…il sorriso malinconico del mio petalo di rosa si sarebbe tramutato in un inno perpetuo: l’inno alla gioia della vita.”
Mi avventurai sulle tracce del suo richiamo per scoprire la sua nuova voce, la veste delle sue nuove stagioni.
Non avevo bisogno di trovare un compromesso tra il sogno e la realtà: il dolcissimo volto di mia madre mi raccontava di un’eterna giovinezza. Fioriva il suo sorriso, la grazia dei suoi movimenti, perché le espressioni melodiche del suo volto non erano più usurpate dalla miseria.
Ora mia madre era felice perché sapeva che assieme avremmo conquistato la nostra infinita bellezza.
E l’amore rimaneva fonte della vita!

segantini l'amore alla fonte della vita

Diventai rapidissimo nel divincolarmi dal grigiore nefasto delle pareti domestiche, furtivo, adocchiavo l’ombra di mio padre che se ne andava in un altro tedioso mercato; non barattava più nessun sogno, ma non permutava nemmeno il suo dolore.
Usciva in silenzio nascondendo la sua rabbia, poi all’imbrunir di nuovi giorni, ritornava a casa, libero dal dolore, fradicio di ubriacatura, goffo nella sua esistenza.
Io invece uscivo trionfante nella mia impresa, libero di amare, di ritrovare mia madre nell’incanto mattutino che mi offriva la natura.
Mia madre riusciva a modulare il mio passo in una melodia dolcissima.
Mia madre ora non dimenticava mai di accarezzarmi con la luce dell’alba, di trasformare il mio dolore in poesia.
Ero libero di scoprire i nuovi volti di mia madre, il suo sguardo che mi indicava l’infinito paesaggio, la bellezza oltre lo sguardo degli uomini mortali…
Io ora vedevo l’oltre…

segantini primavera sulle Alpi

Poi, quel maledetto giorno, l’irriducibile generale, mio padre, proclamò la sentenza breve, coincisa, terribilmente funesta!
“Costretto a subire la visione della tua libertà, avendo obliato il ricordo di tua madre, sarai esiliato per lunghi mesi a Milano! Sorvegliante del tuo impeto ribelle sarà la tua sorellastra Irene deputata a correggere il tuo vizio di uscire, di vivere come un randagio!”
Ma era proprio questa la sua maledetta volontà? O mio padre fu solo costretto dalla povertà che funestava i suoi scarni affari?
In quelle ore che seguirono l’annuncio, l’incubo divampò nel mio pianto!
Mi sentii un eroe morto.

segantini l'eroe e maloja
E con me sarebbe morta per la seconda volta mia madre!

Il generale portò il randagio a Milano, a casa della sorellastra alla quale impartì subito i suoi ordini:
Il randagio non poteva muoversi liberamente.
Il randagio non poteva parlare se non dopo aver ascoltato la domanda.
Il randagio doveva obbedire ed eliminare qualsiasi traccia di ribellione!
Ma nessuno poteva appropriarsi del mio sguardo anche se mi sentivo un leone in gabbia!
Ogni mattina ascoltavo i passi di Irene naufragare nel grigiore di Milano, nella sua travagliata e misera giornata di operaia.

segantini ritratto della sorella irene

Avvertita la sua lontananza spalancavo, con rito quasi ossessivo, la finestra della piccola cucina, perché per vivere, ancora meglio sopravvivere, dovevo necessariamente ribadire l’esistenza della mia capacità visionaria.
Ecco! Lo squarcio nebuloso del cielo che languiva al mio sguardo sarebbe ritornato allo stato originario di azzurro…
Le linee malinconiche delle case avrebbero modulato le cime delle montagne, il verde avrebbe trionfato negli immensi prati primaverili.
Nessuna dissimulazione di finzione… io c’ero!
Esistevo ancora nella mia terra d’infanzia : ad Arco Trentino.
Ma questa volta gli Dei mi sottoposero alla prova più estenuante: non mi concessero nessuna visione! Nessuna nuova trama narrativa. Sarei stato costretto ad arrendermi?
Ritrovai il mio petalo di rosa nei luoghi della mia mente. Conquistai quei luoghi nella completa solitudine e diventai l’eroe della rinascita, perché affidai alla memoria lo sguardo della natura, quell’intima complicità con mia madre, ma soprattutto le sue splendide parole: “C’è ancora tanto da fare…ancora”
Mi sarei ripreso la mia vita, avrei seminato la mia terra, sarei ritornato al mio paese natio…

segantini ritorno dal bosco

Ma per lunghi mesi continuai a vivere in quell’abbaino della misera casa in via San Simeone. Irene partiva di buon’ora lasciandomi qualche cosa da mangiare e non ritornava che all’imbrunire. Anche gli altri inquilini del pianerottolo non li vedevo mai durante il giorno. Le due camerette che abitavamo avevano due finestre molto in alto; salivo in piedi sulla tavola, ma riuscivo a vedere solo  il cielo.
Perché solo il cielo? Trovai ben presto la risposta: spettava a me costruire il paesaggio, cimentarmi in quel connubio meraviglioso tra fantasia e ricordi. Ora la nostalgia prendeva una voce non più solitaria…
La voce dell’orgoglio di sentirmi libero, al di là delle prigioni imposte dagli uomini.
Al di là del grigiore della miseria desolante.
Di una cosa rimproveravo il cielo: di non farmi vedere più mio padre!
“Lascialo stare!” rispondeva Irene alla mia ricerca di scoprire in quale piazza di paese potessi rivederlo.
“No! Non è in nessuna piazza! Lo vuoi sapere dov’è?” chiedeva esasperata dalla mia testardaggine.
“E’ in America! Lontano…lontano capito!! E in America tu puoi andare solo con la tua stupida fantasia!!”
Una sorta di invidia, mista a rassegnazione, si nascondeva nel tono duro, pungente di Irene, perché al moccioso Giovanni il padre aveva serbato in dono, nel suo testamento genetico, la capacità di racimolare un po’ di fantasia, magari solo per sopravvivere all’abbandono, ma era pur sempre la via migliore rispetto alla cruda realtà razionale e spietata che era costretta a sopportare. Ormai la sentenza del suo destino era stata già annunciata da tempo: miseria, una lacerante miseria. Ma per il randagio la sentenza non era poi così chiara: rimaneva ancora oscura per la povera mente di Irene.
Cercai mio padre in tutti i ritagli di giornale che parlassero dell’America.

Lo cercai perché dovevo sfidarlo! Mostrargli tutta la mia rabbia contro il suo ostile cinismo: l’abbandono di un figlio per scappare via, lontano, così lontano da ripudiarlo per sempre! Vedevo mio padre diventare un ricco mercante circondato dal lusso sfrenato…Lui alla mercé solo dei suoi desideri! Noi, io e Irene, alla mercé della nostra miseria.
Solo dopo anni, scoprii che mio padre non era emigrato in America, ma era tornato al suo paese nella speranza di intraprendere qualche nuova avventura economica, quella che lui definiva “La vendita dell’anno! Il nuovo miracolo economico!”
Ma il miracolo non ci fu…

il suo sogno tacque per sempre nel silenzio ostinato della morte.

segantini ritratto d'uomo sul letto di morte

Da quel giorno iniziai a tramutare la sua chincaglieria in mazzi di fiori splendidi, colorati, ostinati a vivere anche d’inverno come ostinato era il suo coraggio di sognare.
Dentro alla mia rabbia vissuta per anni, si custodiva, non più sopito, quell’amore ancestrale che mi legava a lui, quell’amore che, sovente, Irene disprezzava scovando ogni pretesto per annientare la mia libertà nel trasformare la miseria in paesaggi, nel modellare il cielo a mio piacimento.
Come quel giorno in cui inscenai una nevicata nel cortile con pezzettini di carta lanciati dal mezzanino.
Fui punito a colpi di scopa dal portinaio, Irene fece il resto con le debite urla e vampate di collera.
Il giorno dopo mi chiuse in casa.
Comunque dopo qualche giorno riuscii a farla franca.
La sorellastra, come in tutte le fiabe che si rispettino, non era certo avida di furbizia, e di notte riuscii ad adocchiare l’ambita preda: la chiave che teneva nel suo misero portagioie.
Sgattaiolai fuori…
Per ore fui il randagio più felice! Sarei ritornato ricco, avrei ordinato le mie guardie di inscenare continue nevicate.
Quanto avrei riso!
Ma le guardie furono solo due passanti che condussero il randagio nella loro casa mostrandogli ascolto e attenzione.
E al rifiuto del randagio di essere riportato dalla sorellastra, accettarono di tenerlo con sé,
perché “a vederlo bene di profilo il randagio assomigliava ad un figlio del Re di Francia”.

segantini autoritratto da giovane

Queste furono le loro parole.
Anche se il “figlio del re di Francia”, a sette anni, lo misero a fare il guardiano di porci. Certo, questa era una “delle forze avverse” mandatemi dagli Dei per giungere con il superamento delle prove a proclamare il “carattere divino” della mia arte.
Ma alla mia investitura divina mancavano ancora altre prove da superare!
Comunque, trasformai queste forze avverse in un incontro poetico che i miei occhi, mentre il mio corpo controllava che i porci non uscissero dalle stalle, realizzavano con il cielo.
Ogni sera cambiavo d’abito alle stelle…
Ogni sera le stelle diventavano l’anima dei miei colori…
Il tratto visivo dei miei sogni.
Vagabondavo nel cielo, ma riuscivo a vagabondare anche sulla terra, a trovare il territorio della mia libertà!
Fino a quel maledetto giorno in cui venni arrestato per ozio e vagabondaggio e rinchiuso al riformatorio Marchiondi, a Milano.
In quei mesi, la solitudine non era certo padrona delle mie azioni, ma era il mio volere instancabile e testardo per rivendicare la mia libertà! La voce della libertà aveva la voce di mia madre.
Io vivevo per ascoltare il canto di mia madre e forse per trovare la ragione della sua morte.
Il piccolo randagio si stava trasformando in un poeta! Alla natura gli Dei avevano conferito la più alta sacralità, a me avevano donato il compito di rappresentarla con il prodigio dei miei colori, perché anche gli uomini sarebbero diventati sacri.
Sacra la loro vita…
Sacro il loro dolore…
Ma ancor più sacre e inviolabili rimanevano quelle dolci parole: “C’è ancora tanto da fare…tanto”
“Diventerò un Dio, osannato, venerato” sussurravo, mentre abilmente mi trasformavo in un gatto rapidissimo nei movimenti, nel contendermi il mio territorio: “Il territorio della libertà!”

segantini ragazzo della brianza intero

Fuggii di notte…

I miei occhi si appropriarono di ogni respiro di luce; il randagio si districò abilmente distinguendo gli odori nauseanti che sibilavano nel riformatorio da quelli che preannunciavano la mia libertà. Mi feci guidare da loro, li ritrovai nella mia memoria. L’elenco era interminabile, ma anche consolatorio, perché riuscì ad allontanare l’istintivo dubbio di non farcela, di finire i miei anni tra i comandi dell’alto maiale che grugniva pronto a riformare, ad educare la mia “povera” mente, ma prima di tutto a “mozzarmi le mani!”
Le mie mani ribelli sarebbero state mutilate dal loro potere divino. Per il “Maiale” dovevo diventare un ciabattino, solo così la mia mente si sarebbe addomesticata all’autorità, al rigore dell’obbedienza.
Dopo qualche mese ghigliottinarono il respiro dell’universo, la mia fuga finì e mi riportarono nel luogo deputato a riformare i randagi inselvatichiti.
Lì al riformatorio, oserei chiamarlo “al mattatoio”, prima di mandarci al macello, ci insegnavano a scrivere il proprio nome e cognome e qualche rudimentale esercizio per confabulare con la tecnica imitativa della lettura e della scrittura. Eravamo costretti a sbrogliare una matassa di lettere, ma le mie mani erano troppo libere per rispettare gli ordini ripetitivi impartiti dalla voce tempestosa del vecchio, insopportabile maestro. Le mie mani, così sacre, venivano addestrate alla ripetizione meccanica, delirante delle lettere, di quei segni che il maestro chiamava “l’alfabeto non adatto agl’ignoranti!”
“Con quelle mani non riesci a pulirti nemmeno il culo!” queste erano le parole riservate dal “grande saggio”. E ad ogni vergata infieritami compariva il suo ghigno diabolico per poi guizzare di odio con la sua domanda finale: “Merda! Ma quando imparerai a scrivere?”
Quel luogo nefasto era un’ ulteriore prova che gli Dei avevano scelto per trasformare il randagio in un abile disegnatore di parole.
Scoprii le parole scritte quando iniziai a raffigurarle come paesaggi, come volti della natura, ma per far questo avevo il bisogno ancestrale della mia libertà.
Uscito dal Riformatorio, scontata la mia “pena detentiva”, a quindici anni, ritornai nel mio amato Trentino e, in quell’anno fecondo di idee, iniziai a disegnar parole mentre i miei occhi si riappropriavano delle cime delle montagne, dei prati infiniti, del lavorio dei contadini.
Nei miei amati paesaggi, dentro la loro luce, ritornava la mia “venuta al mondo”, finalmente ascoltavo quella voce che ogni parola porgeva al mio raffinatissimo udito… Oh Mario! Era la mia voce che divertita imparava a leggere mentre la mano diventava sempre più fluida.
Stavo diventando un “perfetto disegnatore di parole”.
Da quel momento ascoltai anche la voce degli uomini, non solo quella degli Dei. Studiai il volumetto di Giulio Bellotti “Luce e colori”, il trattato di Chevrel “sulla legge del contrasto simultaneo dei colori”, la traduzione di Modern Chromatics del fisico Rood, ma non fu mai adepto della teoria. La tecnica doveva rappresentare il mezzo, mai il fine a se stesso: il fine ultimo era la vera rivelazione della natura. “Natura, materia”…specchi della mia anima. Al mio risveglio i miei pensieri si specchiavano su queste due universali parole, ma non erano solo i miei pensieri a ricevere la linfa dalla materia…era la materia stessa, fulcro della natura, che per salire a forma d’arte durevole doveva essere elaborata dal pensiero. E’ ben vero che un ideale fuori dal naturale non può avere vita duratura, ma un vero senza ideale è una realtà senza vita! Con il tempo più mi addentravo nell’arte e vivevo per essa, più sentivo il bisogno di riprodurre la vastità della natura in un’opera immensa, infinita, di dimensioni fuori dall’uso comune. Un’opera totalizzante, ricca di percorsi naturalistici che avrebbero condotto lo spettatore alle mie tele finali: al prodigio della natura che si fa arte. Per rappresentare la natura bisogna saperla vivere, sapersi trasformare a seconda dell’atto esplorativo. E svariata diventava la mia muta, la mia abilissima capacità di trasformarmi nel soggetto che volevo rappresentare, rendere immortale, sacro alla volontà degli Dei. Quella grandiosa opera sarebbe divenuta il dono sublime che la mia potenza creativa, il mio spirito della natura, avrebbe donato allo sguardo di uomini e donne che sarebbe proseguito al di là del finito, al di là dell’ ultima condizione umana: la morte.
Chiamai la mia opera “Panorama” e la presentai a degli eletti in grado di sostenere l’impresa.

Segantini e il comitato per il Panorama

A volte servono anche gli “eroi del denaro”, eroi per una giusta causa.
Ma quei poveri eroi ritornarono ben presto alla loro provvida capacità
risparmiatrice, al loro oculato e parsimonioso rapporto con il loro figliol prodigo: il denaro. Più risparmiavano, più la prole, il denaro si generava. Insomma…l’impresa, quell’opera grandiosa, universale, venne ripudiata dai miei eletti finanziatori. “Costi divenuti esorbitanti!” Questo fu il loro definitivo commiato. Comunque in due anni riuscii a ideare un’opera alternativa, dalla dimensione meno dispendiosa, mentre continuava il mio disprezzo verso il denaro che mi divertivo chiamandolo “Il signor Bugiardin”! Sì! Perché il signor Bugiardin è sempre stato una delle forze avverse mandatemi dagli Dei per mettermi alla prova.
E’ una povera “Chincaglieria” che si diverte a non mostrarmi mai il suo vero volto fatto di inganni, tradimenti.
“Spendi, spendi pure! Io e te siamo fatti per vivere nel lusso!” Per tanto tempo ho ascoltato le sue parole, ma mai ho vissuto il suo ozio, la sua noia mortale!
Con la mia nuova opera, il trittico “Dell’Engadina”, desideravo ritornare all’origine ancestrale dei colori, di quei colori che realizzarono la mia nascita.
Da sempre ho diviso i rappresentanti della mia professione in tre colori: nero, grigio, bianco.
Nero è colui che pur di vendere asseconda i gusti del pubblico non educato all’arte; il grigio, corrispondente alla maggior parte degli estimati pittori, rappresenta la mediocrità. Appartengono al bianco  coloro che sono in grado di innalzarsi verso un’ideale elevato da raggiungere. Comunque, nessun insegnamento accademico giovò alla mia arte… Ero stato scelto dagli Dei per consacrare la mia impresa: vivere la vita come un’unica perenne opera d’arte nel ritmo della nascita, della vita e della morte.
Il trittico, si presentò alla mia mente in un ordine temporale poco usuale alla cadenza umana, all’ordine temporale degli eventi: la morte, la vita, la natura.
Delle tre opere la prima ad essere concepita fu la morte ed ebbe origine a Maloja, a seguito del quadro “Dolore confortato dalla fede”.

segantini trittico (la morte)

Il dipinto rappresenta la morte apparente di tutte le cose. E’ inverno, la terra è sepolta sotto la neve, in una capanna è morta una ragazza e, in attesa dei funerali, gli angeli ne trasportano l’anima nel luogo della via eterna. Perché in questo mio trittico la prima opera ad essere generata nella mia mente fu “La morte”? Mi chiedevo se questa mia esecuzione scaturisse da un impulso mentale o nascondesse un segreto, un mistero inaccessibile anche per la mia anima elevata. Chi parlava attraverso questa mia opera? Appena si rivelò la domanda fui subito pronto ad impedire ai miei pensieri nascosti qualsiasi tentativo di risposta. Decisi solo che, nel momento dell’esposizione, i miei tre quadri sarebbero stati presentati secondo il ritmo universale del tempo: la vita, la natura, la morte. Ma una strana inquietudine stava penetrando nella mia assodata sicurezza nel creare e motivare le mie opere. Al disgelo dei miei pensieri nascosti nel formular risposte alla mia strana inquietudine, intuii che stavo dissacrando lo spirito divino delle mie opere per rappresentare quel ritmo del tempo che apparteneva solo a me, solo e unicamente al mio viaggio esistenziale. Perché perenne è il ritmo del tempo della natura, il suo rigenerarsi, ma dentro a quel tempo universale la nostra morte è solitaria, appartiene solo al nostro unico viaggio.
Cosa mi stava capitando Mario? Gli Dei mi avevano concesso anche il dono silente di avvertire la presenza della morte? Era forse un presentimento?
Non ero più un Dio, ma semplicemente un uomo alle prese con l’angoscia del declino, di non riuscire a portare a compimento la sua arte. Ma lo sguardo maestoso delle Alpi mi suggerì che l’idea della morte venne spontanea al mio cuore dalla grandiosità che la natura, dolce madre, mi offriva. Mi rifugiai nel suo grembo, non comparvero lacrime, ma il respiro della mia nascita.
Iniziai a dipingere la seconda opera “La vita”, ripresi il mio sole, la sua luce. L’immagine serena e grandiosa, rappresenta la vita di tutte le cose che hanno radici nella madre terra. Le montagne sono illuminate dal sole che tramonta. Unico elemento che attraversa il cielo è il grande albero sul quale, seduta sulle sue radici, vi è una giovane madre con il suo bambino.

segantini la vita 3

L’amore rimane ancora fonte della vita in un tempo sereno e vitale: il tempo di una nuova semina, di un nuovo raccolto.
Ma fino a quando sarebbe durato il prodigar del tempo nella sua serenità? Fino a quando la natura avrebbe cullato il respiro vitale di uomini e donne assecondando i loro desideri?
Avevo il bisogno, quasi alla stregua di un istinto di sopravvivenza, di ascoltare quella dolcissima voce che, nell’eco del tempo, mi rimandava ai luoghi della mia infanzia, ai luoghi del mio sguardo.
Desideravo solo che mia madre attraverso la natura mi donasse ancora le sue parole: “C’è ancora tanto da fare…”

Iniziò a germogliare nelle radici feconde della mia arte l’opera “La natura”.

segantini quadro la natura

Finalmente ero pronto per scoprire il mistero della sua eternità: la mia anima eletta finalmente me lo consentiva! Ma quale eternità andavo realmente in cerca? Una sconfessione della morte o un’eternità che ben andava al di là del suo semplice valore spirituale, dottrinale? Fin dove arrivava la mia indagine? Avrebbe rappresentato l’ultima fatica del giorno?

segantini ultima fatica

Avevo sempre affrontato nelle mie opere la morte con decisiva franchezza, senza note patetiche, sublimazioni di dolore e paura. Il dolore, quello vero, vissuto con la perdita totalizzante della persona amata, lo riservavo alla parte mia più intima, più solitaria che non necessitava certo di inquadrare gli eventi o di ammorbidirli. L’impasto del dolore era già dato dalla crudezza della verità, di una realtà che non offriva alternative. Con i miei quadri sulla rappresentazione della morte il mio atteggiamento era risolutamente, volutamente distaccato.
Ma di una cosa ero certo: la mia opera d’arte sarebbe stata portatrice del messaggio divino che la natura mi avrebbe rivelato. E le mie domande si sarebbero sciolte come la neve al sopraggiunger del calore diurno. Sì! Ero stato scelto dagli Dei per non accettare passivamente le impressioni della natura, quell’accettazione lasciamola pure ai comuni mortali!
La mia arte non poteva certo essere frutto di rassegnazione.
Abbattimento, avvilimento, mestizia erano parole che gli Dei avevano bandito dalla mia venuta al mondo.
Io vivevo per scoprire…
Ma forse questa volta vivevo per scoprire l’inafferrabile.
Per carpire il segreto della natura dovevo arrivare al cuore dell’immagine, ma non bastava certo una mera riproduzione fotografica della scena, quella cura doviziosa nei minimi dettagli, talmente accurata da poter indicare allo spettatore il luogo esatto da identificare nella sua versione reale.
Per compiere il primo passo verso una corrispondenza divina con la natura non era sufficiente la ricerca degli equilibri compositivi, delle tecniche raffinate sul divisionismo.
Tecniche, ricerca coloristica…parole che rimandavano a quel Giovanni Segantini che viveva della ventata dell’impeto, degli ammiratori che bussavano alla porta del suo studio, che si raggruppavano a celebrare i suoi riconoscimenti nelle gallerie.
Quel Giovanni non c’era più.
Non trovavo più nessuna ragione per la sua esistenza.
Per mesi non scrissi più a nessun mio mecenate, li lasciai vivere tormentati dai loro dubbi sulla mia mancanza di parole.
Ma le orchestravo le parole…
Le orchestravo nei miei pensieri per creare quel concerto coloristico che avrei tributato alla scoperta del vero mistero che la natura mi avrebbe rivelato.
Ma di che cosa aveva bisogno la mia arte? Perché gli Dei ora mi lasciavano solo in quest’impresa?
Mi riducevano ad un essere mortale pronti a schernirmi con la loro condanna: “Se la ricerca sarà vana lo trasformeremo in un povero satiro condannato a suonare non più una musica divina, ma una musica atta a svelare la consapevolezza angosciosa degli uomini. Impietosa la musica rivelerà come la vita umana sia basata sulla menzogna, sull’occultamento del dolore…perché l’uomo appare fragile, destinato alla morte”
Non era certo con la sola bellezza della natura che potevo creare la mia opera d’arte. Questa creazione mi era possibile se non per un impulso dello spirito.
Per creare la mia opera avevo bisogno di ritrovare un’innocenza perduta.
Spogliai completamente l’occhio dalle mescolanze tonali finora vissute e incominciai a dipingere la mia ricerca in pennellate divise che, all’atto finale dell’opera, si sarebbero compenetrate pronte a svelare il segreto sotteso alla rappresentazione di ciò che il mio sguardo aveva penetrato.
Ma per ritrovare la mia innocenza perduta dovevo nascere un’altra volta…su, su, sulle piramidi della mia esistenza…
In alto sulla vetta dello Shafberg!
Eri con me Mario, salivamo su penetrando il candore della neve per raggiungere Schafberg dove erano visibili tutti i monti che dovevano formare sfondo e corona al mio quadro.
Indaffarato per la salita non porgesti attenzione al mio silenzio, alla mia mancanza di parole.
Non ero in grado di rivolgerti nessuna parola perché la mia mente era tormentata dal continuo migrar di domande: “Sarei riuscito a rendere l’eterno significato dello spirito della natura? Avrei saputo dare alla natura da me dipinta quella luce che dona vita al colore e rende infinito il cielo?”
Ma più m’incamminavo verso lo Schafberg, più mi convincevo che ero l’unico uomo che aveva visto per primo le Alpi! Il mio occhio si assorbiva nella contemplazione del cielo azzurro, nei candori delle cime nevose. Feci portare l’imponente tela da una squadra di uomini e, raggiunto Schafberg, diedi ordine di piantarlo con i suoi ripari in cima al monte. Mi sentivo fatto solo di occhi e di mani, il resto del corpo non mi apparteneva più, né desideravo preservarlo dall’ostinato freddo. Iniziai a dipingere mentre il gelo tentava di tramortire il colore, il movimento laborioso delle mie mani. Ascoltavo il silenzio e sentivo rifiorire la mia nascita…
Udii il mio primo pianto mentre mia madre, il mio petalo di rosa, mi porgeva il suo dolcissimo sorriso. Compresi che stavo realizzando un’opera d’arte infinita, al di là del tempo programmato dagli uomini.
Quest’opera d’arte è l’opera totalizzante dell’amore.
Cercai quell’amore anche di notte, dipinsi nel buio, sicuro che anche nella notte avrei trovato il segreto della voce che forgiava l’anima della mia opera.
In quell’ampia veduta che racchiudeva tutto il grande sentimento dell’armonia alpina, scoprii che la mia arte era stata scelta dagli Dei per proclamare una verità troppe volte defraudata dalla sua bellezza: “La vita è immensa!”

segantini e bice davanti alla prima versione dipinto aratura

Immensa era la visione che si porgeva al mio sguardo ogni mattino fino a quel tempo recentissimo che ha gettato nell’angoscia il mio corpo inflitto da dolori implacabili, come quel rabbioso vento che ululava giorno e notte, mentre la mia opera proclamava la sua verità.
E oggi giunto alla fine del mio racconto, tu, mio giovane figlio, hai voluto far entrar dentro la luce del sole perché mi avvolga nella sua luce dorata.
Vuoi vedere tuo padre ancora inebriato dal bacio della luce…
Il bacio della vita.
Ritraggo con lo sguardo la fierezza del tuo volto, il coraggio dei tuoi anni…
Io e te…
Così simili…
Anche se spesso il proceder dei miei pensieri apparteneva alla mia arte, alla mia ricerca, nel mio silenzio.
Ricordati, ero silente non solo con te, ma anche con tua madre, la mia amata Bice.

segantini ritratto di Bice

Eppure mio amato figlio, i tuoi sguardi sono sempre stati colmi non solo di devoto riconoscimento, ma anche di tenerezza che non mancavo mai di custodire nei miei pensieri.
Nel silenzio comprendevi tuo padre, perché come tuo padre hai vissuto tra i pascoli alpini immersi in un bagno di sole, e hai teso le orecchie per accogliere le voci che scaturivano dalle Alpi pronto poi a colmarti del sacro silenzio di fronte all’infinità del cielo azzurro.
Anche di fronte al nostro sacro silenzio ho sempre desistito nel raccontarti la mia vita.
Vuoi sapere il motivo di questa mia scelta? Ricordati che questa mia decisione non è mai stata dettata da una tregua nei confronti di lontani dolori.
Volevo raccontarti la mia vita alla fine del mio viaggio per farti scoprire quel dono che la mia vita possedeva fin dalla nascita: lo splendido dono della resilienza!
Io credo ormai d’aver studiato tutte le cose della terra e di averne compreso il suo valore estetico e spirituale, e credo finalmente di poter comporre il mio ultimo pensiero verso la bellezza suprema.
Sono io che ti sono devotamente riconoscente.
Ma ora mio amato figlio, non piangere…tuo padre, non se ne va…la morte non si farà dura e inconsolata realtà. Sono l’ultima luce del tramonto e sarò dopo questa notte l’aurora del tuo avvenire…
Avvicina il letto alla finestra…aprila, voglio vedere ancora le mie montagne…
Perché c’è ancora tanto da fare…

Sotto il pennello la gamma deve ancora scorrere smagliante, il colore deve essere intenso e puro…

perché la luce sia profonda e vera, il vero si deve oltrepassare…
davanti all’osservatore tutto si deve fondere in una commozione profonda di vita palpitante.

“C’è ancora tanto da fare…”
ricorda Mario, in queste parole vive la vera eternità

per sempre
tuo padre

segantini autoritratto con le montagne
Il 18 settembre 1899
Segantini con l’amato
figlio Mario e la
fedelissima modella Baba
sale a 2700 sullo
Schafberg per lavorare
“Alla Natura”, parte
centrale del trittico
dell’Engadina.
Pochi giorni dopo lotta
con un’acuta
appendicite
trasformatasi in
peritonite.
Muore Il 28 settembre,
allo Schafber, assistito dal
figlio Mario, dall’amata
compagna Bice e dall’amico
dottore Oskar Bernhard

 

Perché questo mio scritto?

Era da tempo che desideravo far migrare le mie parole in volo verso il grande Segantini, sentivo che avrei scoperto il mistero dell’esistenza.

Perché dopo essermi seriamente documentata, la trama del mio racconto mi riconduceva sempre al  vero segreto della vita custodito in  queste parole : “C’è ancora tanto da fare”…

Questo mio scritto è dedicato a tutti i Peter Pan.
Grandi uomini che trasformano il dolore in prove della vita, in attimi puri di conquista.
La conquista della Resilienza!

A presto

Adriana

quadri postati: L’Angelo della Vita(1894)- Petalo di rosa (1884/1890)- L’amore alla fonte della vita (1896)- Primavera sulle Alpi (1897)- Eroe morto (1878 circa)- ritratto della sorellastra Irene (senza data)- Ritorno dal bosco (1890)- Ritratto d’uomo sul letto di morte (1884-1886)-Autoritratto da giovane(1879-1880)-Ragazzo della Brianza (1880-1881) La Morte (parte destra del Trittico della Natura-1898-1899)- La Vita (parte sinistra del Trittico della Natura-1897-1899)-La Natura (parte centrale del Trittico della Natura)-L’ultima fatica del giorno (1884)- Ritratto di Bice-Autoritratto (1895)-

Foto: Segantini con il comitato del Panorama- Segantini e l’amata Bice Bugatti davanti alla prima versione del dipinto Aratura (1888-1889)

Brano musicale: Beethoven 6 sinfonia-secondo movimento

 

20 pensieri su “C’è ancora tanto da fare…

  1. L’ha ripubblicato su marcellocomitinie ha commentato:
    Nero è colui che pur di vendere asseconda i gusti del pubblico non educato all’arte; il grigio, corrispondente alla maggior parte degli estimati pittori, rappresenta la mediocrità. Appartengono al bianco coloro che sono in grado di innalzarsi verso un’ideale elevato da raggiungere. Comunque, nessun insegnamento accademico giovò alla mia arte… Ero stato scelto dagli Dei per consacrare la mia impresa: vivere la vita come un’unica perenne opera d’arte nel ritmo della nascita, della vita e della morte.

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    1. Vi è una rosa di parole da poter scegliere per il bellissimo dono che ho ricevuto “aver visto che hai postato il mio scritto su Segantini”, ma scelgo parole che appartengono ad un volto di donna partigiana che ho profondamente amato e alla quale mia madre ha dedicato la mia nascita…
      “Troverai te stessa se penetrerai nella vita più profondamente di quanto tu non abbia fatto finora…” queste erano le parole di mia nonna nel lascito della sua vita…
      io trovo me stessa nelle persone con le quali condivido l’armonia della bellezza, la condivisione della felicità, “attimi della meraviglia” che la vita mi concede.
      Ci si può ancora stupire dell’attimo così misterioso della nostra esistenza? In un solo attimo abbiamo l’intero universo delle nostre emozioni in quel flusso del tempo che contraddistingue l’Uomo.
      Perché ogni attimo è indissolubilmente legato alla melodia del nostro passato e alle nuove “battute musicali”, a quelle nuove esperienze che ci conducono in nuovi accordi…temi dominanti della nostra Vita.
      Bisogna far uso sapiente dei bellissimi toni che i colori della vita ci concedono, ma questa concessione, questo dono, necessita che ognuno di noi inizi dalla profonda conoscenza.
      In questo viaggio si formano nuovi toni che possiedono la virtù speciale di fondersi con i colori della vita che ci offrono gli sguardi delle persone, il tessuto ordito dalle loro parole. Ed è allora che procede l’attimo in un continuo futuro, una perenne e realizzata conquista.
      E nel divenir degli attimi scopriamo la verità dell’ Uomo Segantini: “Il piacere della vita sta nel sapere d’amare nel fondo d’opera buona, che l’amore è fonte di bellezza.”
      Quella bellezza che sicuramente vivrò anche nell’attimo della fine di questo mio viaggio…
      in quell’attimo vivrò ancora quel gioco che prosegue fin dalla mia infanzia quando osservavo ammirata lo sguardo delle persone.
      Contemplavo i loro occhi, vivevo l’essenza della loro forma, la voce della loro espressività.
      Quelle linee mi divertivo a farle diventare forme di paesaggi: dune sabbiose, ondulate colline, ma soprattutto la migrazione di un volo speciale…
      quel volo della mia profonda gratitudine verso gli occhi che hanno posato lo sguardo sulle mie parole, sugli attimi del mio divenire.
      Viviamo per non dimenticare mai da dove veniamo e rendere vera la nostra testimonianza, le nostre parole.
      Si è liberi nella ricerca di se stessi se viviamo nell’armonia della condivisione…
      bellezza che origina la vita vissuta e amata con una devota parola:
      Grazie!
      Adriana
      natipervivereblog

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  2. Non son riuscita ad arrivare alla fine, ma a 3/4 : motivi di salute agli occhi mi impediscono la visione prolungata sullo schermo.
    Ma fin da subito mi è stata chiara la dolente quanto intensa partitura delle emozioni, quel voler narrare, costi quello che costi, una vita straordinaria della quale, spesso, conosciamo assai poco.
    L’intensità nel tessere i rapporti, la volontà di ritrovare la madre, ‘il suo petalo di rosa’ lascia senza fiato.
    Una bella operazione culturale la tua, della quale sento di dovermi complimentare.
    Chapaeu

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    1. Carissima, ti ringrazio infinitamente!
      Desidero risponderti con una piccola parte, un tessuto preziosissimo ordito di parole, della bellissima lettera scritta da Segantini alla sua amica scrittrice Neera
      ” La mia grande inclinazione quella per il cui ideale lottai tutta la vita, solo, contro tutti, e contro le leggi, fu per la conservazione della libertà del mio Io”
      Ed è questa libertà che sa trasformare in dolore in “resilienza”, che ci dona la capacità di agire, di “Vivere la nostra vita” come un’unica e vera opera d’arte!
      Un caro saluto
      Adriana

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  3. Bella l’idea della trasformazione del dolore in conquista e suggestiva la tua ricostruzione interiore della figura di Segantini artista e uomo, con la sua inesausta ricerca e la forza di una vocazione pittorica avvertita da sempre!
    Quanto alla musica, non avresti potutto scegliere commento migliore che questo brano della Pastorale di Beethoven che accompagna in modo mirabile il racconto del legame di Segantini con la natura!!!
    Grazie di cuore, cara Adriana!

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    1. Ti ringrazio infinitamente!
      La ricerca del grande Segantini era la vera ricerca della “Resilienza”, ed è a tutti coloro che vivono con questo meraviglioso dono ” che ho dedicato questo mio scritto, a tutti i Peter Pan…
      uomini e donne oltre il tempo…
      nel racconto della bellezza straordinaria della loro vita!
      Un caro saluto
      Adriana

      .

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  4. Capisco perfettamente il desiderio di libertà di cui hai parlato nel tuo post, perché anche dentro di me è sempre stata un’esigenza fortissima. E’ proprio per questo che ho sempre adorato le storie i cui protagonisti cercavano disperatamente di conquistare la libertà: perché mi identificavo in loro, e comprendevo profondamente questo loro desiderio. Penso ad esempio a dei film indimenticabili come Le ali della libertà, oppure Non predicare… spara!: a quest’ultimo ho anche dedicato un post nel mio blog, ed è uno di quelli a cui sono più affezionato, perché mi ha dato l’opportunità di pubblicizzare un film dal potente messaggio antirazzista, che era ingiustamente caduto nel dimenticatoio. Intendiamoci, non che io gli abbia garantito chissà quale ritorno di popolarità, ma sicuramente l’ho fatto conoscere a qualcuno, e questa per me è una soddisfazione impagabile.

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    1. Fin da piccola la mia libertà equivaleva alla conquista di essere me stessa, di vivere e creare “l’opera della mia vita”.
      Potrebbe apparire così strana questa formula” L’opera della vita”, ma a distanza di anni sono convinta che queste mie parole siano legate indissolubilmente a mio padre, a quell’amore, quel canto ancestrale, che mi accompagna fin dalla mia nascita.
      Durante le nostre lunghe passeggiate a Lido di Venezia, mio padre, cantante lirico, mi raccontava la storia narrate nei vari melodrammi, e il tono, il tratto vitale della sua bellissima voce, si colorava sempre di più quando giungeva il momento di raccontare l’entrata in scena di un nuovo personaggio che avrebbe sconvolto la trama, il tessuto della narrazione.
      Insieme lo chiamavamo ” l’eroe della vita”, perché, come un vero cavaliere, riusciva a vincere la sua meravigliosa impresa e a riportare i personaggi a vivere nel ritmo naturale dell’amore.
      Perché l’opera della nostra Vita è una creazione meravigliosa che può essere “creata” solo dalla nostra unicità, dalla nostra “diversità che ci conduce nella formula magica “dell’agire”, del rivendicare la consapevolezza di quanto sia prezioso l’atto della nostra vita!
      “Vivo perché esisto
      Sogniamo grandi sogni perché sappiamo di esistere”
      Sono le parole che accompagnano il mio risveglio mattutino
      Un grazie infinito e un caro saluto
      Adriana

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      1. L’affetto con cui parli di tuo padre mi ha toccato nel profondo, e mi ha confermato che anche nella grandezza dei tuoi sentimenti sei davvero una persona fuori dall’ordinario. Colgo l’occasione per dirti che ho pubblicato un nuovo post… spero che ti piaccia! 🙂

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    1. Un grazie infinito, carissima poetessa
      La mia vita è una ricerca interiore accompagnata dalla forte consapevolezza di vivere in un viaggio, l’esistenza, a dir poco miracoloso!
      Immensamente grata di quanto la vita mi dona
      Un grazie sincero
      Adriana

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